È una assenza imbarazzante, che non riguarda questo o quel politico, questo o quell'amministratore, questo o quel partito e nemmeno la funzione della politica. Riguarda tutti noi in quanto persone, individui e soggetti sociali.
Siamo qui con un morto che ci accusa di indifferenza e trascuratezza, vittime e colpevoli di una società acquisitiva, che trasforma l'umano in una macchina di accumulazione di esperienze, di successo e notorietà, di ricchezze e disponibilità.
Siamo schiacciati da un idealtipo mediatico/relazionale che deforma ogni connotazione individuale, quelle più deboli per prime, di chi da subito cerca una strada altra e inevitabilmente fallisce.
Trent'anni sono proprio gli anni del dolore, in cui si vorrebbe fare e non si può, si vorrebbe essere e non si sa, si potrebbe avere e non si ottiene. A trent'anni si ha paura di restare soli e ogni sconfitta sembra assoluta e definitiva. Ma non lo è. Le sconfitte non sono mai definitive e possono essere restituite anche post mortem.
E non è questo il punto. Si può vivere bene ed essere felici anche perdendo sempre, se sempre si riesce ad essere se stessi, se indipendentemente da tutto e tutti si conosce l'essenza della propria esistenza. Mio figlio ha trent'anni. Sento il suo respiro e le sue preoccupazioni, le sue speranze e il suo dolore. Le mie figlie avranno trent'anni e sentirò anche le loro ansie e le loro paure. Spero soltanto che, guardando me, abbiano imparato a gestire le loro sconfitte. Io questo l'ho sempre saputo fare bene. Per questo forse sono un sopravvissuto.
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