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Domenica, 16 Aprile 2017 00:00

1 aprile 1945. Maria Valtorta «Rivedo la letificante e potente Risurrezione di Cristo»

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Una veggente, scrive su quaderni sotto una celeste dettatura rivedendo la storia di Gesù, si può credere o non credere ma le visioni di Maria Valtorta (Caserta 14 marzo 1897 e Viareggio 12 ottobre 1961) sono di un'incredibile bellezza. Questa è la descrizione della resurrezzione che trovate anche online  

 Nell'ortaglia è tutto silenzio e brillìo di rugiade. Sopra di essa un cielo che si fa di uno zaffi­ro sempre più chiaro, dopo avere lasciato il suo blu-nero trapunto di stelle che per tutta la not­te aveva vegliato sul mondo. L'alba respinge da oriente ad occidente queste zone ancora oscu­re come fa l'onda durante un'alta marea che sempre più avanza, coprendo il lido scuro e sosti­tuendo il bigio nero dell'umida rena e della scogliera coll'azzurro dell'acqua marina.

Qualche stellina non vuole ancora morire e occhieggia sempre più debole sotto l'onda di lu­ce bianco verdina dell'alba, di un latteo sfumato di bigio, come le fronde degli ulivi assonnati che fanno corona a quel poggio poco lontano. E poi naufraga sommersa dall'onda dell'alba, come una terra che l'acqua sormonta. E ce ne è una di meno... E poi ancora una di meno... e un'altra, e un'altra. Il cielo perde i suoi greggi di stelle e solo là, sull'estremo occidente, tre, poi due, poi una, restano a riguardare quel prodigio quotidiano che è l'aurora che sorge.

Ed ecco che, quando un filo di rosa mette una linea sulla seta turchese del cielo orientale, un sospiro di vento passa sulle fronde e sulle erbe, e dice: «Destatevi. Il giorno è risorto». Ma non sveglia che le fronde e le erbe, che rabbrividiscono sotto i loro diamanti di rugiada ed han­no un fruscio tenue, arpeggiato di gocce che cadono. Gli uccelli ancora non si destano fra i ra­mi folti di un altissimo cipresso che pare domini come un signore nel suo regno, né nell'aggrovigliato intreccio di una siepe di allori che fa riparo al vento di tramontano.

Le guardie annoiate, infreddolite, assonnate, in varie pose vegliano il Sepolcro, la cui por­ta di pietra è stata rinforzata, al suo orlo, da un grosso strato di calcina, come fosse un con­trafforte, sul bianco opaco della quale spiccano i larghi rosoni di cera rossa, impressi con altri, direttamente nella calcina fresca, del sigillo del Tempio.

Le guardie devono avere acceso un fuochetto nella notte, perché vi è della cenere e dei tiz­zi mal bruciati al suolo, e devono avere giocato e mangiato, perché sono ancora sparsi resti di cibo e dei piccoli ossi puliti, certo usati per qualche giuoco, uso il nostro domino o il nostro fan­ciullesco giuoco delle biglie, giocati su una primitiva scacchiera tracciata sul sentiero. Poi si so­no stancate ed hanno lasciato tutto in asso, cercando pose più o meno comode per dormire o per vegliare.

Nel cielo, che ora ha, all'oriente, una plaga tutta rosata che sempre più si estende nel cie­lo sereno, dove per altro ancora non è raggio di sole, si affaccia, venendo da profondità scono­sciute, una meteora splendentissima, che scende, palla di fuoco di insostenibile splendore, se­guita da una scia rutilante, che forse non è altro che il ricordo del suo fulgore nella nostra reti­na. Scende velocissima verso la Terra, spargendo una luce così intensa, fantasmagorica, pau­rosa nella sua bellezza, che la luce rosata dell'aurora se ne annulla, superata da questa incan­descenza bianca.

Le guardie alzano il capo stupite, anche perché, con la luce, viene un boato potente, armo­nico, solenne, che empie di sé tutto il Creato. Viene da profondità paradisiache. È l'alleluia, il gloria angelico, che segue lo Spirito del Cristo che torna nella sua Carne gloriosa.

La meteora si abbatte contro l'inutile serrame del Sepolcro, lo divelle, lo atterra, fulmina di terrore e di fragore le guardie messe a carcerieri del Padrone dell'Universo, dando, col suo tor­nare sulla Terra, un nuovo terremoto, come lo aveva dato quando dalla terra era fuggito que­sto Spirito del Signore. Entra nel buio Sepolcro, che si fa tutto chiaro della sua luce indescrivi­bile, e mentre questa permane sospesa nell'aria immobile, lo Spirito si rinfonde nel Corpo im­moto sotto le funebri bende. Tutto questo non in un minuto, ma in frazione di minuto, tanto l'apparire, lo scendere, il penetrare e scomparire della Luce di Dio è stato rapido.  Il «Voglio» del divino Spirito alla sua fredda Carne non ha suono. Esso è detto dall'Essenza alla Materia immobile. Ma nessuna parola viene percepita da orecchio umano. La Carne riceve il comando e ubbidisce ad esso con un fondo respiro.

Null'altro per qualche minuto.

Sotto il sudario e la sindone la Carne gloriosa si ricompone in bellezza eterna, si desta dal sonno di morte, ritorna dal «niente» in cui era, vive dopo essere stato morta. Certo il cuore si desta e dà il primo battito, spinge nelle vene il gelato sangue superstite e subito ne crea la to­tale misura nelle arterie svuotate, nei polmoni immobili, nel cervello oscurato, e riporta calore, sanità, forza, pensiero.

Un altro attimo, ed ecco un moto repentino sotto la sindone pesante. Così repentino che, dall'attimo in cui Egli certo muove le mani incrociate al momento in cui appare in piedi impo­nente, splendidissimo nella suo veste di immateriale materia, soprannaturalmente bello e maestoso, con una gravità che lo muta e lo eleva pur lasciandolo Lui, l'occhio fa appena in tempo ad afferrarne i trapassi.

Ed ora lo ammira: così diverso da quanto la mente ricorda, ravviato, senza ferite né san­gue, ma solo sfolgorante della luce che scaturisce a fiotti dalle cinque piaghe e si emana da ogni poro della sua epidermide.

Quando muove il primo passo - e nel moto i raggi scaturenti dalle Mani e dai Piedi lo aureolano di lame di luce: dal Capo innimbato di un serto che è fatto dalle innumeri piccole ferite della corona che non dànno più sangue ma solo fulgore, all'orlo dell'abito quando, aprendo le braccia che ha incrociate sul petto, scopre la zona di luminosità vivissima che trapela dalla ve­ste accendendola di un sole all'altezza del Cuore- allora realmente è la «Luce» che ha preso corpo.

Non la povera luce della Terra, non la povera luce degli astri, non la povera luce del sole. Ma la Luce di Dio: tutto il fulgore paradisiaco che si aduna in un solo Essere e gli dona i suoi azzurri inconcepibili per pupille, i suoi fuochi d'oro per capelli, i suoi candori angelici per veste e colorito, e tutto quello che è, di non descrivibile con parola umana, il sopraeminente ardore della Ss. Trinità, che annulla con la sua potenza ardente ogni fuoco del Paradiso, assorbendolo in Sé per generarlo nuovamente ad ogni attimo del Tempo eterno, Cuore del Cielo che attira e diffonde il suo sangue, le non numerabili stille del suo sangue incorporeo: i beati, gli angeli, tutto quanto è il Paradiso: l'amore di Dio, l'amore a Dio, tutto questo è la Luce che è, che for­ma il Cristo Risorto.

Quando si sposta, venendo verso l'uscita, e l'occhio può vedere oltre il suo fulgore ecco che due luminosità bellissime, ma simili a stelle rispetto al sole, mi appaiono l'una di qua, l'altra di là della soglia, prostrate nell'adorazione al loro Dio, che passa avvolto nella sua luce, beatificante nel suo sorriso, ed esce, abbandonando la funebre grotta e tornando a calpestare la terra, che si desta di gioia e splende tutta nelle sue rugiade, nei colori delle erbe e dei roseti, nelle infinite corolle dei meli, che si aprono per un prodigio al primo sole che le bacia e al Sole eterno che sotto esse procede.

Le guardie sono là, tramortite... Le forze corrotte dell'uomo non vedono Dio, mentre le for­ze pure dell'universo - i fiori, le erbe, gli uccelli - ammirano e venerano il Potente che passa in un nimbo di luce sua propria e in un nimbo di luce solare. Il suo  sorriso, lo sguardo che si posa sui fiori, sulle ramaglie, che si alza al  cielo sereno, tutto aumenta in bellezza. E più soffici e sfumati di un setoso rasare sono i milioni di petali che fanno una spuma fiorita sul capo del Vincitore. E più vividi sono i diamanti delle rugiade. E più azzurro è il cielo che specchia i suoi occhi fulgenti e festoso il sole che pennella di letizia una nuvoletta portata da un vento leggero, che viene a baciare il suo Re con fragranze rapite ai giardinieri e con carezze di petali setosi.

Gesù alza la Mano e benedice e poi, mentre più forte cantano gli uccelli e profuma il vento, mi scompare alla vista, lasciandomi in una letizia che cancella anche il più lieve ricordo di tri­stezze e sofferenze e titubanze sul domani.

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