"I post di debunking stimolano commenti negativi, non raggiungono il pubblico 'complottista' oppure lo fanno reagire nel senso opposto a quello sperato", afferma Fabiana Zollo, prima autrice dell’articolo e ricercatrice post-doc all’Università Ca' Foscari Venezia. I ricercatori hanno analizzato i post, i 'like' e i commenti pubblicati su 83 pagine Facebook di carattere scientifico, 330 pagine 'complottiste' e 66 pagine dedicate al debunking (con oltre 50 mila post).
Lo studio ha confermato l’esistenza sul social network di due distinte comunità che non entrano in contatto tra loro e dialogano all’interno di una cassa di risonanza che non fa altro che rafforzare le loro tesi di partenza.
"La diffusione della disinformazione è dovuta alla polarizzazione degli utenti ma anche alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni e all’incapacità di capire in modo corretto le informazioni - aggiunge Zollo - Questi aspetti sommati al meccanismo delle casse di risonanza e alla ricerca di conferme delle proprie tesi minano l’efficacia del debunking".
"Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news - prosegue la ricercatrice - Piuttosto, l'uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online".
I ricercatori puntano ora a monitorare il mondo dell’informazione con degli indici specifici per valutare l’impatto delle testate giornalistiche e del fabbisogno informativo degli utenti. Nell'obiettivo della creazione di un centro di ricerca dedicato alla problematica dell’effetto che hanno i social sulla nostra società. "Siamo già lavorando a tecniche per avere segnali d’allerta riguardo la diffusione di informazioni false e abbiamo risultati molto promettenti", conclude Zollo.
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