Lo zio gli ha dato 'un pound' del suo, consentendo al bambino di vivere. Ma "un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia" cantava De Gregori.
"M'interessava solo salvare Milo"
"Per me la prima cosa era la salvezza di mio nipote e non m'importava nient'altro che mio nipote" ha raccontato Benìtez, spiegando che "siamo tre fratelli e formiamo una famiglia molto unita". Quando al nipotino Milo è stata diagnosticata una ostruzione biliare che nessuna terapia riusciva a guarire, l'opzione del trapianto di fegato è rimasta l'estrema soluzione per evitarne la morte. I medici hanno dovuto escludere i genitori dalla lista dei donatori, il papà Willy perché il suo fegato era incompatibile con Milo, e la mamma Natalia perché aveva già subìto un'operazione al cuore e poteva andare incontro a rischiose complicazioni.
L'intervento per il trapianto è perfettamente riuscito ma è stato complicato, durando sette ore per lo zio e dodici per il bambino. "Quando ho rivisto Milo dopo l'operazione - ha detto 'Lulo' Benìtez in una intervista alla Cnn - è stato il momento più emozionante della mia vita". Ne godrà ben presto un altro: sua moglie aspetta il loro primo figlio.
Mai più una partita di pallone
Alejandro 'Lulo' Benìtez, trent'anni, è (ormai diciamo è stato) un attaccante storico del Club Central Larroque, una squadra della provincia di Entre Rìos che milita nella terza serie argentina. I medici gli hanno spiegato che dopo l'intervento al fegato, e il lungo recupero necessario, dovrà tenersi lontano dai campi. In futuro potrà, sì, magari, tirare calci a un pallone, ma resta escluso il ritorno all'attività professionale. I colpi che potrebbe prendere in partita sarebbero troppo pericolosi con un pezzo di fegato in meno.
Dimesso dall'ospedale e tornato a Larroque, dove è nato, cresciuto, ha giocato e vive, Alejandro 'Lulo' Benìtez è stato accolto dai tifosi biancorossi del Club Central per quel che è: un eroe per amore. Alcuni hanno approfittato per ricordare che sin da bambino voleva diventare famoso giocando a pallone. Eppure è stato solo lasciando il calcio che giornalisti e fotoreporter di tiratura nazionale hanno fatto la fila per lui coi microfoni, i taccuini e le Nikon.
Per raccontare finalmente di 'Lulo' come avrebbe desiderato da bambino: oltre il minuscolo stadio 'Fortin' dell'amata però piccola città, con le sue memorie di creoli e arabi, di ebrei e italiani che la misero su mentre arrivava la ferrovia e Alberto Larroque, professore di francese, le passava il proprio cognome per chiamarla in qualche modo.