ANNO XVIII Aprile 2024.  Direttore Umberto Calabrese

Venerdì, 15 Dicembre 2017 02:42

I numeri dell'e-commerce italiano sono deprimenti

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Solo le imprese polacche e quelle bulgare in Europa fanno peggio. L'impietoso dato di Eurostat (ma solo per certe imprese)

 Molti siti, poco e-commerce. Quasi tre imprese italiane su quattro (il 72%) hanno un canale che permetterebbe di vendere online, ma solo una su dieci ha ricevuto ordini. Solo Bulgaria e Polonia fanno peggio. In entrambi i casi, l'Italia è sotto la media europea, dove il 77% delle imprese ha un sito o un'app e il 16% ha concluso una vendita. I dati emergono da un'indagine di Eurostat che prende in considerazione solo le aziende con più di dieci dipendenti.

La quota delle imprese che puntano sull'e-commerce è ferma da due anni. Era del 12% nel 2010, è cresciuta al 16% nel 2014 e lì si è fermata. L'e-commerce, afferma Eurostat, “potrebbe offrire alle imprese la possibilità di espandersi oltre i confini nazionali, raggiungendo clienti indipendentemente dalla loro posizione geografica”.

E la Commissione europea “mira a creare un Mercato unico digitale in cui il commercio elettronico tra gli Stati membri sia uniforme”. Fino a ora però resta solo un proposito. Se il 97% delle imprese europee vende e spedisce nel proprio Paese, meno della metà (il 44%) lo fa in altri Stati Ue e poco più di una su quattro va oltre il continente. L'e-commerce italiano dimostra di avere una visione più internazionale rispetto alla media: il 55% delle aziende con un sito o un'app vende in Europa e il 35% a Paesi non comunitari. Una virtù nata probabilmente dalla necessità: tra gli Stati con una maggiore propensione alla vendita oltreconfine ci sono (accanto all'Italia) Cipro, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Austria e Malta. Cioè Paesi con mercati interni piccoli.

Ma perché, nonostante gli obiettivi della Comunità europea, il mercato unico digitale è ancora lontano? Due imprese su 5 affermano di essere frenate da alcune difficoltà. Quella che impatta di più (per il 27%) è il costo di consegna e di eventuale reso del prodotto. Ma la seconda barriera (indicata dal 13% delle aziende) non è economica: manca la conoscenza di una lingua straniera. Pesano, infine, la burocrazia per risolvere dispute e contestazioni, gli adattamenti che il marchio richiede in mercati diversi e le restrizioni imposte da alcuni partner.(agi)

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