ANNO XVIII Aprile 2024.  Direttore Umberto Calabrese

Martedì, 07 Agosto 2018 04:35

C'è un motivo per cui la Lega vuole far rinascere le province

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Da anni considerate emblema dello spreco e dell'inutilità, dal 2016 languono in un limbo di incertezza. Ma Salvini ora le vuole riportare esattamente nella condizione in cui erano. E con uno scopo preciso

 La Lega, spesso accusata di essere un partito dalle vedute ristrette, riscopre il sottile fascino della provincia. Lo scrive Il Corriere della Sera, non senza un filo di sorpresa: giace al Senato una proposta di legge per il ripristino di quelle che, per un certo periodo, sono state considerate più o meno alla stregua di enti inutili, abbozzi malriusciti di autonomie locali, emblemi dei costi eccessivi ed immeritati della politica.

Eppure il progetto, volto al “ripristino della legalità costituzionale”, porta addirittura il suggello del nome di Matteo Salvini (terzo firmatario) e del ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Il perché è presto detto, e la spiegazione la si trova direttamente nel sito leghista: In realtà, anche uno Studio dell’Università Bocconi conferma che il costo delle province è relativo e che la loro soppressione, con l’attribuzione delle funzioni ai comuni, non comporterebbe risparmi di spesa”.

Il mondo di mezzo

Inoltre, “oggi i piccoli comuni non sono nelle condizioni di svolgere le competenze e le funzioni attualmente esercitate dalle province come, ad esempio, la manutenzione delle strade, la gestione degli edifici scolastici delle scuole superiori, i centri per l’impiego”.

Detta con altre parole: le regioni sono troppo grandi, i comuni troppo piccoli. In fondo è quello che prevedeva il Padre Costituente, che articolò per l’appunto la Repubblica in “Regioni, Province e Comuni”, affidando loro la gestione del mondo di mezzo.

Ma poi aveva preso a soffiare il forte vento delle riforme, spinto tra l’altro anche da un forte risentimento verso la casta politica cui la stessa Lega non era certo estranea. Ecco allora che nel 2011 Enrico Letta, all’epoca presidente del Consiglio, tentò la loro cancellazione. Ma modificare la Costituzione è cosa difficile, e lui non riuscì nell’intento.

Nemmeno Renzi ce la fa a cancellarle

La stessa cosa avvenne con il suo successore, Matteo Renzi, che inserì la cancellazione delle province nel pacchetto di riforme costituzionali sottoposte al referendum del 4 dicembre 2016. Era tanto sicuro, Renzi, di averla vinta che prima della consultazione fece passare a colpi di maggioranza una legge-ponte che non le abrogava, ma le depotenziava non poco. Per dirne una: il Presidente non era più eletto direttamente, ma dal consiglio dei sindaci del territorio. Quanto alle competenze e al personale, si dava di forbice. Ma poi venne il referendum, e fu lui a dover lasciare.

Oggi la Lega rilancia, ma andando all’incontrario rispetto a quello che, superficialmente, ci si potrebbe attendere: riportiamo le cose come stavano, compreso (addirittura) il principio del pagamento dello stipendio al Presidente.

La ferrea logica del leghismo

In realtà quello che appare poco comprensibile risponde ad una logica, e persino ferrea. La spiegazione del ripristino delle province così com’erano state pensate risponde ad un chiaro progetto di ridisegnare la geografia istituzionale del Paese. Si noti bene: materia lasciata al di fuori del Contratto con i Cinque Stelle, ma questo potrebbe essere un elemento di forza, e non di debolezza. Come dire: su questa materia non trattiamo, nemmeno con gli alleati. E siamo pronti ad aprire un confronto con chiunque ci stia.

La spiegazione sta tutta in una promessa fatta nelle settimane immediatamente successive alla vittoria elettorale del 4 marzo. Mentre il Movimento 5 Stelle parlava di nascita della Terza Repubblica, Salvini più prosaicamente si rivolgeva ai suoi rassicurando: “Cambieremo lo status di Roma”. E, soprattutto, sposteremo i ministeri dalla Capitale. E pazienza se questo va in direzione contraria alla riforma costituzionale voluta dal centrodestra (con la partecipazione della Lega, allora guidata da Umberto Bossi) nel 2001 che dava all’Urbe più poteri ed autogoverno.

Si dirà: quella riforma del Titolo V in realtà si occupava solo dell’autonomia amministrativa cittadina, ed è vero, ma è difficile immaginare una capitale che vede rafforzato il suo peso nel momento in cui le soffiano i ministeri.

Tanto più che nel 2011, cioè proprio quando entrava in vigore il pacchetto su Roma Capitale, un leghista titolare del dicastero delle riforme lanciò l’idea: spostiamo le sedi da Roma, e portiamole in Lombardia. Si chiamava Roberto Calderoli, e anche la sua idea quella volta non sfondò. Ma non si sa mai: la geografia del potere in Italia può sempre essere rivista.(agi)

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