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Domenica, 23 Settembre 2018 02:30

Mia Madre Mi Odia di Leyla Ziliotto

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Occhi scuri profondi, dolci e pieni di sorda sofferenza. Sephora è il frutto di un matrimonio misto, fra una marocchina e un genovese, che ha messo la sua vita, e quella del fratello, sul ring dell’incomunicabilità e della separazione.

126 pagine di denuncia, dolore, bisogno d’amore e solitudine con qualche tocco di serenità. Una penna fresca per la rosa nera, che in copertina impersona la storia, e una pallina numero 8 come soprannome. Non a caso l’autrice è la campionessa italiana di bocce volo 2011 (medaglia di bronzo al valore atletico del CONI), giocatrice della nazionale marocchina (2016 a Casablanca per i campionati del mondo, 2017 in Francia per la Coppa del mondo. Detentrice del nuovo record africano di tiro progressivo 34 su 43), ora alla sua prima esperienza letteraria. Leyla dal suo programma “Bocce Ferme” su Antenna Blu di “palline ne ha lanciate diverse”!

Un tocco di umorismo per smorzare i toni di una narrativa di denuncia, più che un romanzo, dove si intende ristabilire il concetto di giustizia, quella visione così oggettiva, eppure tanto parziale, dove spesso l’umanità si scontra. Al volante però, in questo caso, c’è una bambina! “Mia madre mi odia” racconta alcuni stralci di vita di una famiglia mista: Amira (la madre), Marcello (il padre), Saphora (figlia e voce narrante), Gabriele (figlio). Lì, in assenza di umorismo, si cresce fra gli insulti di una madre anaffettiva che vive il matrimonio, probabilmente, come uno status dovuto e perciò compiuto con sforzi e pochi piaceri. Gli stessi che riversa sui figli magari troppo lontani dal suo stereotipo di buona prole. Tradizioni troppo diverse, sensibilità differenti, valori distanti minano l’unione matrimoniale e la serenità del nido per i propri piccoli. Sembrerebbe questa la lettura eppure c’è dell’altro che elude le semplificazioni e parla di non comunicazione, confronto, reazione e che non sa di multiculturalità. Sephora è il capro espiatorio prediletto, forse per quelle somiglianze al padre o per la predilezione per i nonni paterni, tanto cari e premurosi. La stessa che si vede negare l’affetto materno necessario alla costruzione di una sana personalità e delle certezze. Un bagnetto con guanto di crine e olio d’oliva per liberarsi dalle impurità che rendevano sporchi gli esseri umani. Pratica necessaria per Amira, che gli italiani non osservavano, tanto quanto la sacralità sessuale della donna, che alla piccola Sephora – adolescente – costò una visita medica e un’altra violenza. A tranciare il cuore della ragazza le continue urla e denigrazioni, con insulti bilingue che segnavano l’amor proprio della figlia e della donna, marocchina e italiana. 

Niente sconti neppure per Gabriele, ammalato di talassemia e cancellato dalla vita della madre per non aver deposto a sfavore del padre in tribunale. Il padre! “Una delle vittime di Amira” recita la penna narrante, lo stesso che per sedici anni assiste impotente all’ira della moglie e alle angherie sui figli senza prendere posizione alcuna. Un uomo affettuoso sì, complice però di quella carneficina di anime innocenti alle quali dolcezza e svago non saneranno le piaghe sanguinanti di una lotta fra titani.

La separazione è l’altro mach da giocare. Qui si aggiudica la vittoria o si ottengono maggiori beni possibili, magari utilizzando i figli come arbitri, pretesti o contenziosi. Certo che incappare nel “nazifemminismo”, definizione dell’ambiente circostante e interagente di Sephora, fa riflettere. Denuncia un femminismo dipendente dal grembo materno, lo stesso che storicamente deve difendersi dal maschilismo, rischiando di diventare a sua volta la medesima arma culturale. Giudici (donne) che rispondono ai pregiudizi e stereotipi propri prima che all’imparzialità della legge. Questa storia parla di eccessi e spesso calca la mano su termini forti, rudi, stonati, nel mero tentativo di restituire il dolore e le assenze ricevute. A tratti sfoggia un linguaggio erudito e saccente per rimarcare la sicurezza di una donna che, oggi, vale e sa fare, oltre quegli innumerevoli tentativi di annichilirle l’identità da parte di Amira. Essere una donna non garantisce dalla pochezza d’animo o dall’anaffettività, soprattutto se a tua volta hai subito il medesimo trattamento. Essere una cattiva madre però non significa annullare tutte le rivendicazioni femminili che pesano sulla storia dell’umanità da millenni. Neppure, però, utilizzarle a proprio piacimento ledendo altri diritti. Insomma il ruolo di madre o di padre è forse la cosa più naturale al mondo se vissuta come tale e arricchita di comunicazione e rispetto per la vita procreata prima di se stessi.

Far bene per essere apprezzata è un diktat che rilega l’anima in una prigione e forse è questo che Sephora deve comprendere. Forse Leyla, occhi scuri profondi, dolci e pieni di sorda sofferenza, saprà assolvere l’amaro compito di insegnarglielo. Lei che dalla sede dell’Istituto di studi sulla paternità poteva contare su Maurizio Quilici (Presidente ISP), Fabio Nestola (direttore CSA) e Carlo Ioppoli (ANPI - avvocato minorile) per onorare la sua quattordicesima presentazione e quella campagna di rivendicazione dei diritti di paternità.

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