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Lunedì, 01 Aprile 2019 04:55

L’Aquila, dieci anni dal terremoto del 2009

Written by  Luigi Fiammata
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L’AQUILA - Il terremoto segna una scissione nel senso comune dei cittadini. A L’Aquila, tutto si definisce indicandone le condizioni, prima e dopo il terremoto. Eppure, non è possibile comprendere i processi attivati dal post sisma, e le attuali condizioni della città, se non si tiene conto della permanenza, e degli effetti, delle dinamiche che caratterizzavano la città, prima del 6 aprile 2009.

La Destra ha governato L’Aquila dal 1998 al 2007, minandone in profondità l’impianto urbano, attraverso il ricorso ad una pluralità di forme di edilizia contrattata e condividendo, con il Centrosinistra, l’attenzione alla preminenza degli interessi degli imprenditori edili locali. La Cassa di Risparmio locale ha sostenuto questo intreccio tra impresa edile e politica, anche oltre il legittimo, e, anche per questo, entrata in sofferenza, è stata poi acquisita, dopo il sisma, da una azienda di dimensione nazionale, che ha presto spostato altrove i centri decisionali e che molto debolmente sostiene oggi le imprese del territorio.

Prima del sisma, L’Aquila si identificava col suo Centro Storico, che era area direzionale, e di pregio monumentale, luogo principe della socialità cittadina e luogo d’elezione della rendita immobiliare che approfittava della vasta presenza di studenti universitari fuori sede, cui era affittato, spesso fuori regola, un costruito privo di condizioni di sicurezza. Le periferie erano preda di assalti selvaggi al paesaggio da parte di una edilizia senza pregio, e senza spazi pubblici, che in molti luoghi sommava, e somma ancora oggi, la presenza contemporanea di insediamenti abitativi disorganici, con capannoni industriali, vuoti, costruiti perché una Legge Regionale ne favoriva l’edificazione senza vincoli, privilegiandone la sola rendita fondiaria e disinteressandosi di un vero impiego produttivo o di servizio. Le frazioni della città, che prima del fascismo avevano dimensione comunale autonoma, erano rimaste un sistema distante e disorganico rispetto all’area urbana, avviato a trasformarsi lentamente in periferia senza più anima.

 

A luglio del 2008, venne arrestato il Presidente della Giunta Regionale Ottaviano Del Turco, insieme ad alcuni dei suoi Assessori. E furono indette nuove elezioni, che, a dicembre, videro la Destra riprendere il controllo della Regione. L’intervento della Magistratura aprì l’ennesima crisi della legalità, e della credibilità della classe politica in Abruzzo, sul terreno della Sanità, che sarebbe stato decisivo per definire una stagione di nuovo, universale, efficiente ed efficace welfare in un una regione caratterizzata da un territorio difficile, in larga parte montuoso, e dalla viabilità disagevole; soggetto a forti processi di invecchiamento della popolazione e di spopolamento delle aree interne. La Sanità pubblica invece, è stata oggetto di un continuo ed indiscriminato taglio delle risorse e dei servizi, senza neppure ridefinirne correttamente il rapporto con la Sanità privata o convenzionata, ma anzi, perpetuando ed accrescendo sprechi e dinamiche clientelari e baronali.

 

Buona parte della classe dirigente locale, e regionale, è composta da medici, in tutti gli schieramenti politici. Gruppi di potere, spesso trasversali e perfettamente adattati alla prevalenza ormai ideologicamente acquisita delle ragioni del mercato, sul bisogno di Salute, si disputano il capitolo “Sanità”, quello più ricco in assoluto dell’intero bilancio regionale. L’intreccio tra costi della Sanità e irresponsabilità della politica e dell’amministrazione, ha toccato il suo culmine subito dopo il sisma del 2009, quando la Giunta Regionale di Destra ha sottratto alla ASL aquilana 47 milioni di euro - erogati dall’assicurazione sottoscritta contro il danno per il terremoto, e che avrebbero dovuto essere utilizzati per ricostruire gli immobili danneggiati dal sisma - per allentare le sofferenze del bilancio regionale al limite del dissesto; l’Ospedale aquilano, così, a dieci anni dal sisma, ancora non è stato del tutto ricostruito e una parte strategica della città, l’intera collina prospiciente la Basilica di Collemaggio, con i suoi numerosi edifici dell’ex manicomio, della Direzione Sanitaria e dei Distretti sanitari territoriali, è in totale abbandono, mentre la ASL, proprietaria dei luoghi, paga fior di affitti ai costruttori locali per le sue sedi “provvisorie”.

 

A settembre del 2008 iniziarono ad avvertirsi i primi segnali, a livello nazionale, della terribile crisi economica, che, iniziata con la bancarotta della finanza statunitense, è, ancora oggi, non riassorbita dall’economia mondiale. A L’Aquila la crisi impatta su un territorio che, nel 1994, con il primo governo Berlusconi, è stato espulso, prima della naturale scadenza, dal sistema di sostegno straordinario dell’Europa per il Mezzogiorno e che ha appena subito colpi terribili dalla riorganizzazione del sistema delle imprese a Partecipazione Statale, un tempo nerbo di una presenza industriale importante, nella produzione e nei servizi per le Telecomunicazioni, anche spaziali e per la Difesa, oltre che nelle industrie elettroniche specificamente vocate ai sistemi d’arma. Un intero settore industriale, con migliaia di occupati di cui oltre il 50% donne, con le sue competenze e professionalità pregiate, viene totalmente cancellato dai processi di privatizzazione insensati e gestiti solo nell’ottica del rientro dal debito pubblico in previsione dell’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro. Per la prima volta nella storia repubblicana della città, è impossibile alla politica locale intervenire nei processi economici, la cui portata, e la cui origine, è troppo lontana e ampia, perché possa essere condizionata. La mancata percezione di questa debolezza strutturale del sistema locale, da parte delle maestranze interessate, della politica locale, della città complessivamente e di larga parte del Sindacato territoriale, lascia sul terreno la sensazione di una violenta e inspiegabile ingiustizia subita, che non consente di organizzare risposte e alternative credibili, ma solo la ricerca di capri espiatori.

La città quindi, alla vigilia del sisma, vive una situazione di forti disequilibri, tra Centro e Periferia, tra Occupati e Espulsi dai luoghi di lavoro; tra poteri locali indeboliti, frammentati nelle competenze e messi in competizione tra loro dalla improvvida riforma “federalista” di Bassanini e poteri nazionali e globali. Vive una profonda crisi di prospettiva, avendo investito molto di sé stessa nella formazione e nell’alta formazione, ma ritrovandosi improvvisamente quasi del tutto priva di sbocchi credibili per i giovani che contribuiva ad istruire. L’Aquila è segnata dai processi di marginalizzazione delle aree interne del Paese e vede accentuare la propria passivizzazione, poiché la fonte preponderante di sostentamento è il flusso di risorse pubbliche verso la città, con gli stipendi alla diffusa classe di lavoratori pubblici di un capoluogo di Regione - ivi comprese le scuole d’ogni ordine e grado e una Università che contava oltre ventimila iscritti - con le pensioni erogate ad una popolazione che invecchia e che ha visto, prima del tempo, porre in quiescenza migliaia di persone prima impegnate nell’industria, con il sostegno generalizzato alle numerose, ricche di storia preziosa e qualificate Istituzioni culturali cittadine.

 

E poi arriva il trauma.

 

Il terremoto dell’Aquila, da subito, diviene innanzitutto una rappresentazione mediatica. La città è raccontata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione in special modo, con una capacità di drammatizzazione enorme e secondo una precisa e attenta scansione sceneggiata. Mentre i cittadini vengono obbligati, in massa, ad abbandonare la città, è messo in atto, subito, un percorso che non deve ripetere le scansioni temporali che hanno caratterizzato altre tragedie nazionali. La tripartizione di “gestione dell’emergenza – transizione – ricostruzione”, è abolita. Il Presidente del Consiglio non può permettersi che L’Aquila sia esposta allo stesso modo in cui le sue televisioni hanno mostrato, puntualmente e per ragioni di opportunità politica, il terremoto in Umbria: la presenza nei telegiornali, delle immagini, ad ogni ricorrenza, degli stenti delle “Festività nei container”, per i terremotati, non può essere consentita. La fase di transizione è perciò cancellata e con essa anche la possibilità di sedimentare un racconto condiviso della tragedia nella popolazione. E di costruire una riflessione seria e capace di traguardare il futuro, sui caratteri e la qualità della ricostruzione di un Capoluogo di Regione, la cui distruzione e recisione di tutti i gangli sociali, economici, relazionali, direzionali e di elaborazione, è subitanea e totalmente inedita nella storia del Paese. La volontà di “dare un tetto” in tempi rapidissimi a decine di migliaia di persone è assolutamente lodevole e innovativa. La proposta del “Progetto C.A.S.E.” tramortisce l’intero Centrosinistra al governo della città, e le forze sociali, e ne sancisce l’afasia anche col prolungamento strumentale dei poteri commissariali, in varie forme, fino al dicembre del 2012.

 

Il terremoto si trasforma in un grimaldello utile a cambiare i rapporti di potere, e l’equilibrio dei rapporti tra poteri, in Italia.

La gestione dell’emergenza nella città è caratterizzata dalla sospensione di ogni regola di democrazia. Sin dalla prima Ordinanza post sisma viene sospesa la validità, per il territorio colpito dal sisma, di decine e decine di leggi di indirizzo e controllo dell’intervento pubblico: ad esempio, tutto il codice degli Appalti; tutto il magistero di controllo della Corte dei Conti; tutta la normativa sul trasporto dei rifiuti, anche tossici, speciali e pericolosi; persino la legge sulla trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione è abolita, a L’Aquila, tra l’altro. E’ qui che si innesta il tentativo di trasformare la Protezione Civile in una Società per Azioni cui affidare la realizzazione di tutte le Grandi Opere Pubbliche, in regime di emergenza, anche sotto il profilo della gestione dell’ordine pubblico, e che è bloccato solo quando emergono gli scandali delle “cene galanti” nella residenza del Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Un fiume di risorse finanziarie, un mare di persone mobilitate per L’Aquila, un oceano di solidarietà vera, nazionale, e internazionale, talora raccontati e amplificati dai canali televisivi e dalla carta stampata, non ancora sottoposta all’attacco dei Social Media, rendono indicibile il dissenso. Nessuna discussione fu possibile, e neppure oggi lo è, in realtà, riguardo l’impatto del Progetto C.A.S.E. sulla realtà cittadina. Da ottobre del 2009, il Progetto C.A.S.E. ospita confortevolmente e dignitosamente, fatto salvo qualche crollo negli ultimi anni, migliaia di aquilani spossati dal sisma e da mesi di lontananza fisica dalla città. Ma oggi tende a trasformarsi in residenza riservata a fasce marginali della popolazione: il rischio di doversi confrontare con dei ghetti è altissimo, già ora. I veri costi del Progetto C.A.S.E. sono un mistero, mentre non lo sono le fonti che ne finanziarono la realizzazione: il Fondo Europeo di Solidarietà per le calamità naturali fu praticamente impiegato per intero, e, pertanto, il “merito” della realizzazione del Progetto C.A.S.E., andrebbe almeno diviso con l’Unione Europea e non essere oggetto di vanto esclusivo del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca.

 

Il ricorso alle risorse dell’Unione, inoltre, vincola il destino futuro dei diciannove “quartieri” sparsi per il territorio comunale: essi devono restare strutture “temporanee”, ma i cui costi, in realtà, per l’abbattimento e il ripristino del territorio, nessuno sosterrà mai. E quelle “strutture temporanee” non possono generare “utili” per il Comune, divenutone nel frattempo il proprietario, che pertanto non può alienarli a soggetti utilizzatori che avrebbero tutto l’interesse a mantenerne intatta ogni funzionalità. Si è taciuto per anni che la quantità di risorse necessaria ad una vera manutenzione di quei complessi residenziali, non è realisticamente sostenibile dal solo bilancio del Comune di L’Aquila, che, peraltro, soffre fino al limite del collasso finanziario per i mancati introiti derivanti dall’evasione del pagamento delle bollette per le utenze (tutte formalmente in capo al Comune proprietario), che tantissimi inquilini del Progetto C.A.S.E. hanno praticato e praticano, talvolta per vero bisogno, molto più spesso per intollerabile cinismo, tutt’oggi; spesso irresponsabilmente spalleggiati da quasi tutte le formazioni politiche che hanno cavalcato, secondo le convenienze elettorali del momento, una demagogica idea di “assistenza totale”. La città militarizzata e quasi interamente svuotata, nel luglio 2009, quando la riunione del G8, con un colpo di teatro, fu spostata dalla Sardegna a L’Aquila, racconta un potere che, purché non sia disturbato ma ubbidito, elargisce con assoluta generosità assistenza e sostegno, e persino una intera estate aquilana di spettacoli d’intrattenimento dal vivo di grande qualità, mobilitando il meglio degli artisti italiani, gratuitamente.

Il territorio comunale, coi suoi nuovi nuclei abitati costruiti in quei mesi, si estende ora lungo l’asse Est-Ovest per oltre trenta chilometri, senza che vi siano le risorse per i corrispondenti necessari servizi pubblici, dal trasporto alla raccolta dei rifiuti, ad esempio, o una dotazione infrastrutturale adeguata, e senza che l’edificazione di questo patrimonio residenziale aggiuntivo abbia contribuito a eliminare l’abusivismo edilizio, che, al contrario, è esploso, usando come cavallo di Troia una sciagurata Delibera comunale della Giunta di Centrosinistra. Quell’atto autorizzava la realizzazione di manufatti provvisori in legno nella fase d’emergenza, i cui oneri di urbanizzazione sono stati a totale carico delle risorse pubbliche, e che ha generato poi migliaia di “casette di legno” (censite, peraltro), abusive persino per i criteri previsti dalla Delibera, ma anch’esse urbanizzate e oggetto oggi dell’attesa di una sanatoria generalizzata, nel cui nome sono stati eletti alcuni consiglieri della Destra vincente alle ultime elezioni comunali. Il patrimonio edilizio abitativo di L’Aquila, senza contare gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. capaci di ospitare oltre tredicimila persone, è sovradimensionato di circa il 30%, rispetto ai residenti attuali (poco meno di settantamila), anche per le previsioni del Piano Regolatore della città, risalente ai primi anni ’70, e da allora mai cambiato, se non con interventi in deroga, che immaginava una città di centoquarantamila abitanti, e estendeva le aree edificabili a quella dimensione demografica. A questa inflazione di appartamenti vuoti s’aggiungono i “premi di cubatura”, che le Leggi varate dai vari Governi, hanno nel frattempo consentito nella ricostruzione e che hanno generato, anche per questa via, nuova edificazione.

 

Il Centrosinistra ha governato la città dal 2007 al 2017. Nessuno, obiettivamente, può immaginare che vi fosse una classe dirigente locale preparata alla tragedia e all’incredibile sconquasso che ha colpito la città. Ma quella Amministrazione è, culturalmente prima che politicamente, corresponsabile dell’attuale conformazione urbana e sociale della città. Quando il Governo del Presidente del Consiglio Berlusconi iniziò a discutere la Legge che avrebbe dovuto presiedere alla ricostruzione della città, fu subito chiaro che la quantità di risorse economiche che sarebbe stata posta a disposizione dei cittadini avrebbe reso materialmente impossibile ricostruire L’Aquila, talmente sottodimensionate erano le cifre. Il Centrosinistra, locale e nazionale, guidò l’opposizione alle scelte del Governo. La parola d’ordine, che mobilitò la città, chiedeva che il danno fosse risarcito al 100%, richiesta assolutamente legittima, e che tutto fosse ricostruito come era e dove era. Come se la ricostruzione di ogni singola abitazione privata, ricostruisse una città.

 

Una città è fatta di storia, e di storie. Di relazioni. Di interessi economici e conflitti. Di dinamiche culturali e produttive. Di servizi e di formazione e istruzione. Di luoghi pubblici e d’incontro, di commerci, di attività amministrative e direzionali. Di emergenze artistiche e ambientali, di luoghi di culto. E tutto è unito in uno spazio fisico, ed immateriale, le cui funzioni sono talvolta gerarchizzate, talaltra capaci di convivenza paritaria, ma sempre mutevoli e bisognose d’interpretazione e governo. Non può essere ridotta una città alla somma del suo patrimonio immobiliare. Ed invece quelle parole d’ordine hanno reso la ricostruzione un processo eminentemente individuale, familiare, al più; e che si esaurisce nella riparazione della propria abitazione, o delle proprie abitazioni. Il futuro, nelle aspettative degli aquilani, sarebbe stato caratterizzato, semplicemente, dal ritorno allo splendore di un passato idealizzato. (continua)

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