ANNO XVIII Aprile 2024.  Direttore Umberto Calabrese

Venerdì, 10 Gennaio 2020 16:44

Filippine, gli angeli di Clark

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La cronaca dalle Filippine, in questo lungo reportage di Sebastiano Casella per Agoramagazine, si ammanta di rosa, parlando degli angeli, ovvero delle piccole donne dei sobborghi, ove tra miseria e abbandono, sesso e malattia c'è chi sogna concorsi di bellezza; appare persino ovvio il confronto col libro "Bellissime" della giornalista tarantina Flavia Piccinni.

Qui però siamo alla fine del mondo, dove tutto è sempre peggio, nelle Filippine e si parte dagli angeli per una storia nella quale riecheggia il ruolo della Spagna. Del resto nel suo nome, 'arcipelago ricorda un re europeo e un esploratore.  Ma c'è di più, c'è la storia, la guerra, il colonialismo americano, la perdita di secoli di memoria spagnola e forse questo è l'animus dell'attualità... Buona lettura. 

Quando all’inferno scende la sera e le luci delle insegne dei locali tingono di misericordia l’esistenza di chi ci vive, tutto appare più umano e meno decifrabile. Persino loro, gli angeli di Clark, che si sono preparate per un’altra lunga notte, appena truccate sui visi di ragazzine cresciute male e in fretta, i vestiti rimediati rovistando i banchi di qualche mercato a poco prezzo, sanno ancora sorridere quando ti guardano. L'allegria costa poco, da queste parti. E paga.

Vengono da ogni angolo del paese: da Luzon, dove si trova Manila, con i suoi sobborghi di miseria che ospitano quasi 15 milioni di persone, o dalle altre duemila isole abitate sulle oltre settemila che compongono l'arcipelago, come Cebu, dove si dice che ci siano le più belle ragazze delle Filippine, luogo di origine della maggioranza di quelle che poi vincono con frequenza i concorsi di Miss Universo. Sono in cerca di fortuna, per conto loro o per salvare le famiglie, che per il viaggio hanno pagato con tutti i risparmi e aspettano a casa il loro ritorno, se va bene, una volta all'anno. Il sesso femminile alla nascita è la prima opportunità per la svolta: quando in una casa povera viene al mondo una bambina, i parenti festeggiano nella speranza che un giorno possa farcela a cambiare il destino di tutti loro.

Il viaggio ad Angeles le proietta verso il buio di un futuro pericolosamente incerto. Quello che all'inizio pare un diversivo alla noia del villaggio di origine, con il passare del tempo si trasforma quasi sempre in un orrore dal quale risulta praticamente impossibile venirne fuori: ancora minorenni sono prese in carico dalle organizzazioni criminali che ne gestiscono la vita come fossero operaie di una catena di montaggio. Molte, la maggior parte di esse, sono libere e non hanno un padrone: ma la libertà generalmente si acquista dopo anni di “gavetta" in uno dei tanti bar, dove il proprietario, in ogni caso, le priva dei documenti per evitare che finiscano alla concorrenza. Comunque, senza istruzione e con la sola esperienza della strada, non vanno molto lontano. Il loro destino non cambia: possono trovare un altro posto, come Olongapo, Cebu o Pasay, nella periferia di Manila, ma l'inferno resta quello. Senza passaporto, oltretutto, è impossibile emigrare altrove. Alcune, in questo mondo di sotto, spariscono e di loro non si sa più nulla.

L'AIDS fa parte delle regole tacite, negli incontri occasionali: tutti i giocatori seduti al tavolo lo sanno, ma amano il rischio e non vogliono protezioni. È il banco che smista le carte e, come in tutti i game, è lui a vincere. Senza neppure aver bisogno di bluffare.

Le statistiche ufficiali, pur drammatiche, non riescono a rendere l'idea. Della malattia se ne parla poco, con vergogna, e la zona d'ombra del fenomeno lo rende ancora quasi impenetrabile a studi e ricerche sul campo. L'OMS, nel 2010, parlava di meno di ottocentomila prostitute presenti nelle Filippine esercenti in maniera stabile la professione, quasi l'un per certo dell'intera popolazione, inclusa la prostituzione maschile, in fortissimo aumento. Almeno trecentomila sono i casi accertati di prostituzione minorile. I clienti? Sempre gli stessi. I turisti occidentali, supportati dalle agenzie di viaggio specializzate in turismo sessuale, poi gli uomini d'affari locali e, in generale, gli orientali benestanti, tra cui spiccano coreani e cinesi della Mainland continentale che oramai, con i loro soldi, stanno invadendo ogni angolo di Oriente e possono comprare ogni cosa.

 

 

Secondo gli ultimi dati di ONUSIDA, con un aumento complessivo, dal 2010 al 2018, di oltre il 200 per cento, le Filippine detengono il triste primato di essere in cima alla lista dei paesi dove maggiormente cresce il contagio nel mondo: quaranta nuovi casi al giorno accertati. La curva in ascesa è solo il margine visibile di un epidemia incontrollabile, soprattutto adesso, con la comparsa di un tipo particolare di supervirus endemico, una variante capace di resistere alle cure tradizionali che, invece, funzionano in occidente. Fino ai primi anni del 2000 si è mantenuta su livelli più o meno costanti. Poi, di colpo, l'impennata.

Il governo presieduto da Rodrigo Duterte ha recentemente approvato la Legge sulle Politiche dell’HIV e dell'AIDS che dovrebbe garantire un piano d'attacco alla propagazione della malattia, con l'accesso facilitato al test da parte dei più giovani, pensato anche per proteggere i diritti dei portatori del virus: ma persino le misure più basilari, come la distribuzione gratuita di preservativi nei collegi scolastici e la promozione dell'educazione sessuale o dei test gratuiti, sono temi tabù che vengono fortemente ostacolati dai vescovi, in un paese dove l'ottantacinque per cento della popolazione è di fede cattolica, e che considera anche l’acquisto di un comunissimo condom un peccato. Un paese dove non esistono neppure distributori automatici che li mettano in vendita, come accade invece nelle più evolute città occidentali.

Nonostante le statistiche da brivido, Angeles City esiste perché c’è gente che viene qui a bere il suo veleno, incurante del pericolo che corre, ispirata forse dall’idea infondata quanto ottimistica, e sempre erroneamente utilizzata, del “tanto a me non capita". Nella realtà le cose non stanno in questo modo: degli studi condotti recentemente dalle autorità sanitarie locali hanno accertato che, ogni mille rapporti occasionali non protetti, uno è a contagio sicuro: il problema è che le statistiche non dicono quale potrebbe essere, se il primo o il millesimo. In pratica, un suicidio a tempo indeterminato.

 

 

 

 

 

 

 

Karla è una ragazza dai lineamenti del viso delicati, carina abbastanza da chiedermi se sia possibile, a 50 anni, innamorarmi di un paio di occhi esotici come i suoi in soli 50 secondi. La aggancio con la scusa di aver scelto lei per l’immagine di portata dell'articolo che sto scrivendo, mentre è intenta a giocare una partita di biliardo con un'amica. Ha i capelli di un nero intenso e brillante, lisci come fili di seta luccicanti. Le mani ben curate, un fisico dalle forme perfette e l'aria di chi sa il fatto suo, nonostante la giovane età. La vita, quando è una dura maestra, rende i suoi alunni più preparati e in grado di affrontare anche gli esami più difficili con un’incoscienza quasi inconsapevole. Come la sua.

“Sei un giornalista, vero?” mi domanda da una certa distanza, mentre è concentrata a studiare un colpo.

“Cosa cambia?”

“Voi giornalisti pubblicate sempre quello che volete su di noi…" aggiunge.

Poi inaspettatamente posa la stecca, si siede al mio tavolo e ordina per entrambi una Pilsen gelata mentre allunga lo sguardo al tablet che tengo aperto di proposito, con la sua foto già impaginata. Per qualche istante resta in silenzio, come se stesse pensando.

“Hai sbagliato il titolo, sai? Qui ad Angeles non esistono angeli: siamo tutti diavoli, tutti…” mi fa. “Conosci l'italiano?” le chiedo stupito senza ricevere alcuna risposta.

Viene dalle immense pianure di risaie di Pampanga, la regione dove si trova Angeles, un territorio piatto e verdeggiante che sembra senza fine e s'interrompe solamente quando incontra la Sierra Madre, una parete di montagne scure che s'innalzano all'orizzonte e ricordano le Ande argentine, quando si giunge a Mendoza, la terra del Malbec. “Da bambina lavoravo anche dodici ore al giorno. Aiutavo mio nonno che aveva ottenuto in affitto una terra molto fertile: camminavo sempre nell'acqua, spezzandomi la schiena cercando di rivoltare, con la poca forza che avevo, quelle zolle maledette per seminarle - e mima il gesto con un braccio. Alla sera sentivo l'umidità entrarmi fin dentro le ossa. Poi ho detto basta. Una amica più grande di me voleva andarsene e io sono partita con lei, a sedici anni. Siamo andate a Manila, senza conoscere nessuno, scappando via da quell'esistenza inutile. Quando mio nonno lo ha capito, il giorno dopo, è quasi morto per il dispiacere”.

Mi racconta che ha tredici fratelli e sorelle, che vivono qui ad Angeles, con la madre. “Io sono la più grande, e li devo mantenere tutti: questa è la regola, nelle Filippine, almeno fino a quando non diventeranno grandi e troveranno qualcosa da fare per vivere”.

Dopo aver lavorato per quattro anni in un bar di Burgos Street a Makati, la red zone più famosa e trasgressiva di Manila, durante una serata come le altre, ha conosciuto un italiano di una certa età che da molto tempo aveva aperto un ristorante nella capitale ed era in cerca di compagnia.

“Mi ha portato via da quel posto, per sempre. Nel giro di pochi giorni mi sono ritrovata a iniziare il mio primo lavoro pulito. Non mi pareva vero: ero diventata la sua donna, gestivo la sala, i camerieri mi ubbidivano e, in più, mi pagava con tanti soldi a fine mese. Aveva quasi settanta anni, ma a me andava bene perché mi trattava come una figlia, non come una prostituta”. Nei suoi occhi si accende una scintilla di felicità, come se volesse quasi tornare indietro, a quei momenti. In un istante, però, torna seria e il suo volto si rabbuia in una smorfia senza espressione. Fa una lunga pausa fissando un punto nel vuoto, tra la gente che ci circonda. Poi riprende.

“MI credi? Non mi ha mai toccata, neppure un bacio: non voleva che facessimo l'amore, niente. Io lo tradivo, certo, poi un giorno mi ha detto di essere molto malato e non l'ho più fatto: non ci riuscivo, mi faceva pena. Aveva la cirrosi epatica, è finito tante volte in ospedale. Io dovevo portare avanti tutto da sola, i fornitori, i clienti: ho passato un periodo molto complicato, pieno di responsabilità. Credevo di non riuscirci, invece... Poi l’anno scorso è morto. Non sapevo neppure che fosse sposato, in Italia. Quando ho conosciuto la moglie, che è arrivata qualche settimana dopo il suo funerale, lei si è presa le chiavi del ristorante, ha contattato un avvocato e lo ha immediatamente venduto. Ma, in banca, i soldi non c'erano più: prima di andarsene, lui mi ha pregato di svuotare il conto e prendere tutto quel che c'era. Una bella fortuna, sai? È stato il suo ultimo regalo, povero uomo…”.

Karla, con quel denaro, è riuscita a sistemare la sua famiglia e ancora oggi si può permettere il lusso di vivere quasi senza lavorare. “Ora però mi mantengo in un altro modo, con il mio canale erotico” e mi mostra sul web una pagina che non lascia spazio a equivoci. Ho clienti da ogni parte del mondo: dall'Australia, dall'Europa, dall'America. Loro mi pagano in anticipo e io mi spoglio davanti a una telecamera: mi masturbo, faccio finta di godere e guadagno molto bene. Le mie amiche, quando gli faccio vedere come simulo un orgasmo, dicono che sono la più brava a mentire. Mi basta lavorare un paio d'ore, e nemmeno tutti i giorni. Alcuni, pensa, vorrebbero venire qui per conoscermi, altri addirittura sarebbero disposti a sposarmi. Questo è quello che vorrebbe anche mia mamma: sposarmi, sí, fare dei figli, prendere una cittadinanza occidentale e cambiare vita. Ma io tengo troppo alla mia libertà: non è ancora venuto quel momento. Forse un giorno, chissà, ne sceglierò uno…” mi dice senza troppa convinzione, come se davvero questo fosse il migliore momento della sua vita, in fondo ancora tutta da costruire.

 

 

Durante la nostra lunga chiacchierata, lo schermo del suo Huawei di ultima generazione non ha smesso un istante di accendersi per le chiamate in arrivo, che lei ha sempre puntualmente ignorato. “Ora devo andare: i miei clienti mi cercano, vedi? Paga tu la birra, ok?” e, lanciandomi un bacio, si allontana da me con un sorriso che sa tanto di addio.

Tante storie, quelle degli angeli di Clark: la roulette ha una serie infinita di numeri dove la pallina può andare a fermarsi, tante le combinazioni possibili. Karla ha puntato, senza saperlo, su un numero vincente: ma non a tutte va bene. È un lavoro che segna le esistenze, questo, e tra le pieghe dell'anima le ferite bruciano anche quando non si vedono. Con gli anni i problemi di depressione si acutizzano e, alla fine, proprio quando la vita si stringe, si paga il conto tutto assieme. L'alcolismo e la dipendenza dalla droga diventano gli unici, perfidi compagni di viaggio.

Un'indagine mostra il vero costo del vivere “a ore”. Solo il 2 per cento delle intervistate ha ammesso di divertirsi. Secondo la ILO, l'agenzia specializzata sul lavoro delle Nazioni Unite, oltre il 50 per cento delle intervistate ha dichiarato di lavorare con il “cuore pesante" e più della metà ha aggiunto di sentirsi una nullità dopo un rapporto sessuale a pagamento con un cliente. Basta avventurarsi una notte ad Angeles City per credergli sulla parola.

La Walking Street, la strada pedonale che attraversa la piccola e caotica cittadina, sarà lunga non più di tre, quattrocento metri. Considerando che i bar cominciano ancora prima dell'entrata, segnata da un asfittico arco rettangolare di cemento grigio e legno, malamente illuminato da qualche neon colorato per renderlo più vivace agli occhi del turista, arrivo a una cinquantina di locali, prima di stancarmi nel contare. Se si aggiunge il reticolato di traverse che gli si sviluppa intorno, il totale sale: probabilmente saranno più di duecento. Su Walking Street i bar si trovano uno accanto all'altro e, tranne quattro motel senza stelle e un paio di ristoranti orientali che cadono a pezzi, la scena è solo loro. Qui si svolge tutto e si vende di tutto: alcool, droga e sesso, come nella migliore narrativa della “beat generation" di Kerouac.

Le ragazze sono in piedi sulle varie entrate, adescando i passanti. Alcune sono sedute, con i corpi appena avvolti in abiti succinti, e le gambe, e i seni bene in vista, pronte a rispondere al minimo incrocio di sguardi. Altre ancora sono mescolate tra la gente e fanno finta di passeggiare in attesa che qualcuno le noti e se le porti via con la scusa di un drink.

In questo senso, Angeles è il luogo più equo e democratico della Terra. Non importa da dove tu venga, se da Oriente o da Occidente, se hai la pelle scura o bianca o gialla. Non importa se sei giovane o vecchio, alto o basso, palestrato oppure con lo stomaco ingrossato a dismisura dalla birra, se sei biondo, moro oppure calvo.

Non importa come sei vestito, che orologio porti al polso, se sorridi o te la tiri, se profumi o sei lercio come un cane. Se hai tatuaggi su tutto il corpo, ti depili o hai la barba incolta da giorni. Se parli inglese, arabo, cinese o sei muto dalla nascita.

 

 

 

 

 

Ad Angeles tutti possono comprare tutto. E, come in ogni mercato che si rispetti, alla fine ogni cosa ha un prezzo: basta trovare un accordo, il punto d'incontro tra domanda e offerta. Tra ragazze, ladyboy e gay, qualcuno accetterà quel che gli viene promesso in cambio da uno sconosciuto, lo prenderà per mano come se lo frequentasse da una vita e sparirà con lui tra la gente.

Le tariffe sono, manco a dirlo, trattabili: generalmente al ribasso, vista la concorrenza spietata e la miseria cronica degli astanti. Per uno “short time" si chiedono non più di 50 dollari, bettola di camera inclusa. Nelle traverse secondarie alcune topaie offrono, per cinque euro, tre ore di permanenza. La quarta è gratis. Per un “long time" di tutta la notte si può arrivare a spenderne anche il doppio: con il rischio sempre presente però che, una volta conclusa la prestazione, la misteriosa chiamata di una sedicente sorella o di un'amica rimasta fuori casa, invece di rimanere fino al mattino, faccia rapidamente andare via l’oggetto del desiderio. Sul web, sempre a pagamento, vengono persino reclamizzate guide per l'uso che dovrebbero garantire da certi trabocchetti e astuzie, dei veri e propri decaloghi per sopravvivere in questo mattatoio a cielo aperto dal nome così dolce e allo stesso tempo ingannevole.

 

 

Lo show si ripete ogni sera, con il calar del sole, ossessivamente uguale a se stesso, come uno spettacolo teatrale dove si recita a braccio una sceneggiatura a prova di stanchezza e vuoti di memoria. Gli attori e i figuranti possono pure cambiare: ma le parti da interpretare, no. Sono sempre quelle. Da un lato gli oltre diecimila volti della prostituzione, dall'altro i clienti con le loro voglie inconfessabili da appagare.

Ma quando ha avuto inizio tutto ciò? E, soprattutto, cosa è stato a trasformare una piccola e sonnolenta cittadina della regione del Pampanga in una delle “Sin City" più conosciute e leggendarie al mondo?

Per rispondere, è sufficiente prendere un taxi. Anche se sono consapevole del fatto che i testimoni dell’epoca degli inizi del mito di Angeles City non potranno più parlare. Sono più di ottomila, e giacciono uno accanto all'altro, pochi palmi di terra sotto le lunghe e candide fila di lapidi di marmo bianco che affollano l'immenso e curatissimo Clark Veterans Cementery: una distesa di erba rasata trapuntata di nomi di soldati che, in un modo o nell'altro, hanno perso in questo squarcio di mondo le loro vite, eroiche o meno, perché ognuno scrive la sua storia come può.

Qualche minuto prima delle 8 del mattino del 7 dicembre del 1941, con 183 velivoli individuati dai radar ma scambiati per una formazione di aerei amici provenienti dalla terraferma, la prima delle due micidiali ondate di bombardamenti da parte del Giappone distrusse la base navale di Pearl Harbour, sull'isola di Oahu, nelle Hawaii, decretando il giorno seguente la formale entrata in guerra degli Stati Uniti d'America e del Giappone, e dando così inizio a quella che viene storicamente definita come la Grande Guerra dell'Asia Orientale.

Appena nove ore più tardi dall' attacco a Pearl Harbour, una serie di bombardamenti a sorpresa effettuati con degli aerei provenienti dall'isola di Formosa, l'attuale Taiwan, colpivano l'isola di Guam nel Pacifico e la Base Aerea di Clark, la più grande installazione militare permanente che mai nella storia gli americani abbiano avuto al di fuori dei loro confini nazionali. Clark si trova a poco più di cinquanta chilometri a nord di Manila. E a meno di cinque dai destini segnati di Angeles.

Gli Stati Uniti, nelle Filippine, vi erano però finiti molti anni prima, alla fine dell'800. È utile, a questo punto, analizzare cosa accadde, esattamente, in quegli anni così tormentati per la storia dell'arcipelago.

 

 

La guerra ispano americana, iniziata nell’aprile del 1898 e conclusa nell'agosto dello stesso anno con la sconfitta spagnola, aveva condotto al Trattato di Parigi, nel quale, in cambio della somma di 20 milioni di dollari, Madrid si obbligava a cedere a Washington Cuba, Porto Rico, Guam e ad accettare l’occupazione a tempo indeterminato delle Filippine, dando così inizio a quello che viene comunemente definito come il principio dell'imperialismo americano. Per ordine espresso degli Stati Uniti, alle trattative di Parigi non venne invitato nessun rappresentante di Manila che, in questo modo, dopo aver combattuto per l'indipendenza dalla Spagna supportato segretamente da Washington, si ritrovava ora con un nuovo oppressore colonialista dentro i confini nazionali: proprio gli Stati Uniti.

Avendo compreso che gli Americani non stavano affatto giungendo come liberatori ma come dei nuovi colonizzatori, ancor prima della fine delle ostilità con la Spagna, il generale filippino Emilio Aguinaldo dichiarò l'indipendenza dell'arcipelago, indisse le elezioni e promulgò in lingua spagnola la prima Costituzione della storia delle Filippine, fondando in questo modo repentino una Repubblica. La cosa ovviamente non piacque affatto agli Americani che, all'inizio di febbraio dell'anno successivo, diedero inizio ai primi scontri armati contro i rivoltosi di Manila, incolpandoli di voler organizzare degli attentati a loro danno. Il casus belli era pronto.

Nel giro di qualche settimana la guerriglia e l'esercito statunitense cominciarono ad affrontarsi in quasi tutto il territorio insulare, anche se le truppe di Aguinaldo non potevano certo competere per equipaggiamento e preparazione militare con quelle dell'esercito regolare americano.

La Rivoluzione Filippina, nonostante la disparità delle forze in campo, riuscì nell'impresa di vincere alcune battaglie ma fu costretta a capitolare nel luglio del 1902. In quei tre anni e sei mesi, le truppe dell'allora Comandante MacArthur Jr. si macchiarono di esecuzioni sommarie, facendo un uso indiscriminato della tortura nei confronti della popolazione locale allo scopo di stanare i ribelli, con l'inedito utilizzo, tra le altre forme di violenza praticate durante gli interrogatori, della “water cure", che portava all'asfissia del prigioniero mediante l’ingestione forzata di grandi quantità di acqua. Fu tanta la crudeltà che un'ondata di sdegno e di condanna prese a montare addirittura negli Stati Uniti, dove per diversi mesi vi furono manifestazioni e proteste pubbliche da parte dei cittadini antiimperialisti che non accettavano tali politiche espansionistiche in nome del predominio da ottenere a tutti i costi, sul nuovo fronte orientale.

 

 

 

 

Nel luglio del 1902 il generale Emilio Aguinaldo viene arrestato ed è costretto a capitolare, anche se gruppi di rivoluzionari continueranno a combattere nelle giungla per anni, fino al 1913. I costi della guerra saranno altissimi pure tra i civili: qualche storico, testimonianze alla mano, parlerà di centinaia di migliaia di vittime, ma i dati rimasero incerti. Un genocidio che gli Americani, comunque, non riconosceranno mai.

Iniziò così un periodo di calma quasi assoluta in cui nessuno fu più in grado di mettere in discussione il dominio di Washington sulle Filippine: una volta instaurato un governo di comodo con poteri fortemente limitati, il nuovo padrone si adoperò per rendere più sicura la colonia appena acquisita. I “nostri piccoli fratelli neri"- come venivano paternalisticamente definiti dalle alte cariche governative, più esattamente da William Mc Kinley, 25simo Presidente degli Stati Uniti d'America, che fu assassinato successivamente per mano di un anarchico polacco - avrebbero ben presto appreso dalla cultura americana come dover fare per crescere, emulando i fratelli biondi e meglio dotati venuti da lontano. Seguendo le sue idee, si sarebbero dovute costruire nuove infrastrutture, sviluppando i commerci con la realizzazione di strade e porti, bonificando vaste aree di territorio abbandonate a se stesse per favorire l'economia interna del paese.

Pace, progresso e prosperità furono le parole che giravano a Manila in quegli anni. Il processo di americanizzazione delle Filippine, un vero e proprio tentativo di “autoclonazione sociale”, lungi dal conseguire gli obiettivi prefissati, portò piuttosto all’azzeramento del patrimonio culturale e istituzionale ereditato dai 300 anni di colonialismo spagnolo, che pure non fu benevolo: venne abolito drasticamente l'uso della lingua castigliana e introdotto l'uso dell'inglese come lingua ufficiale nell'amministrazione pubblica e nelle scuole. Ma si andò oltre, con le brutali esecuzioni di chiunque, filippino, parlasse ancora spagnolo. Le idee e le azioni repressive ideate da William McKinley, che diceva di essere ispirato da Dio in questo processo di conversione sociale e di cristianizzazione della popolazione locale, che secondo lui non era in grado di governarsi da sé, vennero riprese e portate avanti con simile convinzione dal successivo presidente americano, Theodor Roosevelt, che sarà in seguito insignito del Premio Nobel per la Pace.

 

In un recente e interessante articolo apparso sul quotidiano conservatore spagnolo ABC (dal titolo “Asì exterminó el ejército de Estados Unidos todo rastro de la herencia española en Filipinas” [ndr]) pubblicato in data 18 giugno dello scorso anno, vengono inoltre documentate le rappresaglie nei confronti di quelli che l'autore del testo definisce come “gli ultimi spagnoli di Manila”, ancora presenti nelle Filippine dopo l'avvento degli Americani nell'arcipelago: e rappresentano meglio di ogni altro riferimento storico, il dramma e le tristi conseguenze cui andarono incontro quanti non vollero o non poterono abbandonare il paese per tornare in patria, nella Penisola Iberica, allora in mano a Francisco Franco che simpatizzava per gli Stati Uniti.

In realtà, a parte qualche miglioramento dovuto al contatto ravvicinato tra il sistema americano e la forza lavoro locale utilizzata per mandare avanti il processo di colonizzazione, nulla cambiò dal tempo della dominazione spagnola, anch'essa senza dubbio responsabile del mancato sviluppo delle Filippine. Quando mezzo secolo dopo, negli anni ’60, Ferdinando Marcos prenderà il potere per il suo primo mandato presidenziale, troverà un paese ridotto in condizioni estreme di povertà e disagio. La metà delle abitazioni continuavano a costruirsi con erba secca, foglie di palma e bambù; la maggioranza di esse non disponeva di servizi sanitari di alcun tipo e il 94 per cento non aveva neppure l'elettricità.

Poi venne il Vietnam, una delle pagine più tragiche della pur breve storia americana, e la Base Aerea di Clark, vista la vicinanza con il teatro delle operazioni, divenne uno dei punti di “decompressione" e il principale centro di raccolta di uomini e armamenti di tutto l'Estremo Oriente. Angeles, il piccolo centro abitato a metà strada tra le montagne e il mare, dove il tempo scorreva lento e i cui ritmi erano quelli monotoni della raccolta del riso, prese semplicemente coscienza di sé come farebbe un'adolescente che scopre di colpo la propria sensualità davanti a uno specchio.

Quando nelle Filippine si diffuse la notizia che a Clark erano di passaggio dei soldati bellissimi, muscolosi come statue greche, che pagavano in dollari per divertirsi per qualche ora, le ragazze cominciarono ad arrivare da ogni luogo, vicino o lontano che fosse. Erano euforiche, e c'era da capirle. Le nuove arrivate cercavano delle camere dove dormire, iniziarono a spuntare ristoranti, pensioni a ore e bar ovunque: era davvero una bella gioventù, quella. Dinnanzi a tanta bellezza, Angeles si adeguò. Lì cominciò mito e discesa all'inferno.

Fu così forte il clamore e lo scandalo proveniente da quei bar posti lungo la Fields Avenue, come allora si chiamava la Walking Street di oggi, che la voce giunse inevitabilmente alle orecchie del Comando della Base Aerea. La reazione fu scontata, e ottenne molto meno di quanto ci si potesse aspettare, soprattutto dai giovani di grado più basso, che continuarono indisturbati a compiere scorrerie leggendarie nei bar fuori della Base: solamente gli Ufficiali e i Sottufficiali, più sorvegliati dai superiori, dovettero soccombere alle nuove regole che richiedevano, tra l'altro, la loro assidua presenza nei nuovi Circoli e Club di ballo e cabaret che vennero in fretta e in furia fatti costruire all'interno del recinto militare, con la programmazione di spettacoli provenienti direttamente da Broadway e di concerti dei cantanti più famosi del momento. A quanto pare, il testosterone fu più forte degli ordini dall'alto e della musica di Haggard e Terry Nelson.

***

Dopo quasi mezzo secolo e un lungo e faticoso percorso punteggiato da promesse mancate, deboli aperture e battute di arresto, il governo americano di Theodor Roosevelt, anche a causa del generale processo di decolonizzazione in atto nel mondo a partire da quel periodo, decise che era giunto il momento di concedere la tanto agognata indipendenza ai “loro piccoli fratelli neri". Il 4 luglio, data significativa anche per gli Stati Uniti, del 1946 nacque così la Repubblica delle Filippine. Nel concreto, però, rimaneva una forte dipendenza economica, con l'approvazione di un piano di aiuti finanziari che avrebbero dovuto risollevare i bilanci pubblici e la ricostruzione dell'arcipelago, l’istituzione di agevolazioni commerciali per le società americane, che in tutto e per tutto venivano parificate a quelle filippine, nonché una sudditanza di ordine militare, con la concessione di basi militari sul territorio nazionale della neonata repubblica, che Washington avrebbe potuto amministrare per ancora un lungo periodo, 99 anni, poi ridotto a 25, con la possibilità di rinnovo concordato a ogni scadenza. Gli Americani, per farla breve, non volevano andarsene del tutto.

 

 

 

Ma la Natura, evidentemente, non era d'accordo con quanto stabilito dall'uomo. Il 12 giugno del 1991, dopo un sonno che durava da oltre 500 anni, il vulcano del Monte Pinatubo si svegliò dal torpore e, nel giro di sei giorni durante i quali vi furono segnali inequivocabili dell’imminenza di un evento catastrofico, la cuspide intera esplose provocando la seconda più grande eruzione del secolo, dopo quella del Krakatoa del 1883. Quando dici le coincidenze avverse.

I militari americani, con le famiglie al seguito, erano già stati fatti evacuare con i ponti aerei predisposti verso l'isola di Guam, e l'operazione riuscì alla perfezione senza che vi fossero vittime tra loro. Nel frattempo, prima dell'esplosione definitiva del vulcano, vi furono oltre una ventina di terremoti ed eruzioni, ognuna di esse gradualmente più intensa della precedente, che hanno oscurato il cielo di cenere, vomitando dalle viscere della Terra fango bollente, grossi ciottoli di pomice e massi rocciosi che furono lanciati fino a 30 chilometri nel cielo. E che, ricadendo al suolo, distrussero ogni costruzione nel raggio di 60 chilometri, compresi gli hangar e le strutture aeroportuali della Base che, nel frattempo, erano stati sigillati con tanto di aerei al loro interno. Uno spettacolo apocalittico si presentò agli occhi dei primi che, a distanza di giorni, giunsero sul posto. Gli effetti dell’evento sono davvero difficili da poter essere creduti ma fanno ormai parte delle statistiche e, quindi, sono attendibili.

Secondo l'autorevole sito VolcanoDiscovery.com, la colonna di fumo e cenere si alzò di oltre 30 km nel giro di soli 15 minuti, provocando a distanza di qualche ora, un buio quasi assoluto. Vi furono, in totale, 750 morti accertate. Ottomila furono le case rase al suolo. Nella sommità del monte si aprì una caldera di 2,5 km. Cenere e anidride solforosa rimasero nella stratosfera per oltre un anno e la temperatura globale del pianeta, durante lo stesso lasso di tempo, scese di mezzo grado per via dell'assorbimento anomalo della luce solare da parte delle particelle liberate nell'aria. Il totale di materiale roccioso rilasciato dal vulcano fu di oltre 5 km cubici. La Base Aerea di Clark, abbandonata precipitosamente e per sempre dagli Americani dopo un passato glorioso, rimase sepolta sotto uno strato di cinquanta metri di cenere, mentre in altri punti più prossimi al vulcano lo spessore raggiunse la inconcepibile cifra di 200 metri. I danni superarono i 500 milioni di dollari dell'epoca.

 

 

Oggi, che tutto ciò appartiene al passato, la spianata è stata occupata dalla Clark Freeport Zone, la zona franca speciale: un progetto iniziato nel 1993, durante la presidenza di Fidel Ramos, che ha portato gradualmente, ma non senza interruzioni e grossi problemi di natura economica, alla realizzazione di una ristrutturazione dell'intera superficie di oltre 314 kmq. Negli ultimi anni, hanno fatto la prima comparsa anche importanti multinazionali e grandi società commerciali come, solo per citarne qualcuna, Mercedes Benz, Honda, Yokohama, Texas Instruments e FedEx, che hanno costruito qui delle moderne basi logistiche per la penetrazione nel mercato nazionale filippino. Marriott, Radisson e Holiday Inn hanno innalzato i loro hotel da 400 camere ognuno e il flusso turistico sembra trarne beneficio, vista anche la presenza degli Headquarters logistici di Cathay Pacific, Qatar Airwais, Singapore Airlines, molte compagnie aeree cinesi e la nazionale Philippines Airlines: i loro collegamenti con i principali hub da cui partono le rotte di maggiore importanza strategica dovrebbero essere utili allo scopo di integrare i paesi circostanti al nuovo aeroporto civile che è stato inaugurato solo da qualche anno e dovrebbe essere funzionale alla creazione dei presupposti perché anche Clark possa immaginare un proprio futuro da snodo di prossimità per merci e persone.

 

 

 

 

Una parte della zona franca è interessata, inoltre, da un progetto futuristico che dovrebbe concludersi in un periodo di tempo stimato decennale, per il 2030. Si chiama New Clark City e per ora, a parte i progetti sulla carta, si può solo parlare di idee da realizzare. La nuova Città di Clark prevede la creazione di una “smart metropoli” da quasi due milioni di abitanti, la maggior parte dei quali dotati di alto potere acquisitivo, sulla scia di quelle già realizzate in Cina, dove le classi più agiate possano migliorare ulteriormente il proprio modo di vivere grazie all'utilizzo di soluzioni ecosostenibili d'avanguardia e all’adozione di criteri abitativi che riguardano l'intero ambito dell’esistenza dell'individuo, dalla facilità di raggiungere il proprio lavoro evitando totalmente il traffico mediante l'uso di arterie stradali intelligenti, all’attenzione dedicata allo svago e al “benessere dello spirito" , con la creazione di piattaforme polifunzionali al cui interno verranno ubicate le strutture sportive, gli stadi e i megateatri per i grandi eventi culturali. Il tutto immerso in un ambiente naturale, assolutamente “no stress". Al progetto partecipano i grandi investitori cinesi, che con il presidente Duterte alla guida del paese godono già di un notevole trattamento di favore. Gli accordi già conclusi sono in grado di garantire a Pechino la certezza del ritorno economico di quella che è stata definita come “la Città dei Sogni".

 

Per adesso, a finirmi dritta nel cuore come la lama di un coltello che fruga nel passato, è ancora l’entrata della vecchia Base Aerea di Clark, che si raggiunge percorrendo la Manuel Roxas Highway, proprio come si faceva una volta, anche se a quel tempo la lunghissima arteria a sei corsie non esisteva. Ma l'incantesimo pare riuscire e mi sembra di vederle ancora quelle Jeep dai fari rotondi, mentre la percorrono come diavoli con i loro angeli stretti al collo.

Passo un paio di controlli, i militari con le armi spianate, e mi ritrovo in un mondo che non credevo esistesse più: i lunghi viali alberati che si incrociano nella pace assoluta di un traffico raro e ordinato non hanno più nulla a che vedere con la vivacità di allora, quando la base ospitava più di ventimila persone e la terra bruciava di guerra sotto la suola degli anfibi.

 

 

Sembra un luogo sospeso nel vuoto, in bilico tra il mondo delle foto in bianco e nero e la modernità che si prospetta là di fuori, con la New Clark City, la “Città dei Sogni", il futuro che incombe. I militari ci sono ancora, ma adesso sono solo filippini: la vecchia Base Aerea, da quando gli Americani sono andati via, ospita gli stormi di ultima generazione, di provenienza cinese e russa: e gli aerei luccicano al sole senza neppure un graffio da mostrare orgogliosi a un nemico ipotetico di cento combattimenti mortali. Poco oltre, messo un po' in disparte su di un prato verde, vedo un UH1H “Huey", l'elicottero che venne usato per la guerra in Vietnam, quelli di Apocalipse Now, per intenderci. Leggero come una piuma, per essere veloce a trasportare le truppe in battaglia e a raccogliere i feriti per portarli in salvo, al punto che si guadagnò il soprannome di “Misericordia del Cielo". Talmente sottile il suo corpo di alluminio, senza alcuna blindatura perché non perdesse di agilità, che i soldati, mentre erano in volo sulla giungla, per evitare che qualcuno gli perforasse il culo con un colpo di kalashnikov, si sedevano sull'elmetto per sentirsi più protetti. Altri tempi, davvero.

di sebastiano casella/AGORÀ MAGAZINE

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