Non nascondiamo il movente di questa ricerca. Il battage pubblicitario legato al Spartan Race, una bella iniziativa sportiva, una sorta di più complicata corsa campestre ad ostacoli; più precisamente una gara cross, con motore turbo umano. Non ce ne vogliano gli amanti di Sparta se da questa ricerca la madre patria non ne esce bene, ma non si discute la valenza del fare, piuttosto il riferimento storico da aggiustare. Questo a causa della formazione umanistica dello scrivente.
Chi erano i parteni? Vennero da noi al pari di rifugiati dalla Laconia, questa regione all’estremità del Peloponneso che ha capoluogo Sparta. Perché parteni? Gli antichi davano varie e contrastanti spiegazioni del termine (gr.παρθενίαι«figli di vergini»), riporta la Treccani: “forse erano figli nati dal connubio illegittimo di spartiati con donne appartenenti alla classe degli iloti che, non avendo diritti politici in patria, preferirono trasferirsi altrove”.
Più dettagliatamente la stessa storia raccolta da Wikipedia riporta lo storico e geografo greco antico Strabone, che nella sua Geografia, scrive quello che avvenne, negli ultimi decenni del VIII° secolo a.C., durante le lunghissime guerre tra Sparta e Messene; un conflitto che occupa ben trecento anni e quindi ogni guerra rischiava di durare un vero e proprio salto generazionale.
Fu certamente in una di queste lunghissime attese che portò “le donne spartane a mettere in guardia i propri uomini dal pericolo conseguente al fatto che essi, per mantenere il giuramento legato a quella guerra, erano lontani dalle mogli e dalla loro città: Sparta rischiava di non avere più una giovane generazione di guerrieri e loro avrebbero agito di conseguenza. Preoccupati, gli Spartiati acconsentirono che i Perieci(cittadini che non godevano di tutti i diritti politici propri degli Spartiati), fossero autorizzati a unirsi alle donne e a procreare (figli illegittimi, detti poi 'Parthenii', e destinati, di conseguenza, a vivere emarginatie in condizione subalterna)”.
Chi fossero i perieci ce lo dice la nostra ricerca, il nome viene da peri che significa attorno e oikos che vuol dire casa. Membri di persone libere che vivevano in comunità fuori e intorno ai territori degli Spartani; è facile pensare a indigeni già presenti, magari sconfitti e non amalgamatisi, isolati, una sorta di minoranza maltrattata, come tra curdi e turchi oggi.
Che i parteni siano figli di donne di Sparta,- secondo questa teoria - poco conta se poi furono comunque marginati come i loro padri perieci e costretti alla fuga. Ma fa piacere pensare piuttosto, anche se è solo una leggenda, che Falanto e i suoi, scappati a sicura morte, fossero come i moderni rifugiati, che venivano da comunità libere, spinti da una idealità forte tipica dei giovani, che avrebbero profuso nella nuova avventura. Ma andiamo con ordine.
I nostri progenitori? Erano ancora altri. Secondo quanto viene riportato in un articolo di 40 anni fa sul Dialogo scritto dal compianto Giacinto Peluso, che su quel giornale riportò a puntate la Storia di Taranto che poi divenne un libro, i primi insediamenti dei progenitori sono legati allo Scoglio del Tonno, a Porto Saturo, a Torre Castelluccia e a Porto Perrone. In un convegno del 1970 sulla Magna Grecia fu il prof. Lo Porto a dire: ““In età antica i due mari — Mar Grande e Mar Piccolo — comunicavano solo a mezzo del canale naturale, fra l’estremità occidentale della penisola e la zona di Scoglio di Tonno che Strabone chiama “to stoma tou liménos” cioè “entrata, bocca del porto” e ora è sormontato dal Ponte di Napoli a tre arcate, lungo 115 metri”. (Nell'immagine una riproduzione dello Scoglio del tonno" con la grossa catena che chiudeva il porto.
Peluso cita i ritrovamenti archeologici del Quagliati per rimarcare l’importanza dello scoglio del tonno, per conoscere per quanto possibile, la storia della nostra citta: “La stratigrafia dello scoglio provò l’esistenza e la cultura dell’uomo in quel lungo periodo neolitico, quando alla pietra scheggiata si sostituì la pietra levigata, ed eneolitico, cioè il periodo di transizione fra l’età della pietra e quella del bronzo. Fu proprio il Quagliati ad avere “indizi di un abitato con fondi di capanne e di tombe coeve a fossa, irregolarmente scavate nella roccia, e a forma di cista costruita con lastre di pietra locale, le cui dimensioni ridotte fanno presumere il rito della posizione contratta dei cadaveri”. I reperti provenienti dallo Scoglio del Tonno, a detta degli esperti, sono “riferibili in cronologia al 2800-2300 a.C.”. “Intorno al XIV secolo a.C., lo scoglio del Tonno, all’entrata del seno interno e in posizione dominante la rada esterna — scrive ancora il professor Lo Porto — è centro fiorente di traffici commerciali con il mondo miceneo”.
In una incisione tratta dalla monumentale opera di Theodoro Salmon, “Lo stato presente di tutti i paesi”, si scopre una Taranto del 1740 con una serie di luoghi e monumenti ormai scomparsi o divenuti irriconoscibili per le trasformazioni subite. Proprio in questa veduta, come in un’altra del 1702 dovuta all’abate Giovanni Battista Picichelli (qui sopra) è ben visibile lo Scoglio del Tonno posto tra l’isoletta di San Nicolicchio e il ponte in muratura che scavalcava il canale naturale, unico punto di comunicazione tra il Mar Piccolo e il Mar Grande. Se vogliamo indicare con una certa approssimazione la zona conosciuta con il nome di Scoglio del Tonno dobbiamo dire che, all’incirca, è quella ove si trova la chiesetta della SS. Croce edificata alla fine del XVII secolo, secondo notizie non bene accertate, dal beato Angelo di Acri venuto a predicare a Taranto per la quaresima. Oggi, tutti gli studiosi, per indicare la zona di cui parliamo, usano la denominazione “Scoglio del Tonno” il che fa pensare che in quel punto del mare si praticasse la pesca di tale cetaceo, il che non sembra rispondere a verità”
C’è poi chi, sull’onda delle notizie riportare da Strabone, parla dei greci provenienti da Creta come primi fondatori di Taranto, come di gran parte del Salento sempre in contrasto con i Messapi. Ma dopo le versioni sulla costruzione della città da parte dei cretesi, viene fuori la leggenda di Taras e anche quella di Falanto. Su Taras gli storici non concordano. Dice il Lenormant a proposito di Taras: Gli storici tarentini del Rinascimento e dei XVII secolo e dopo di loro il De Vincentiis, domenicano, che ha pubblicato nel 1878 un apprezzabile riassunto degli annali della sua città, fissano seriamente la data di Taras nel 2019 prima dell’era cristiana e sanno con certezza che egli era, per parte di suo padre Nettuno, il pronipote dì Cam, figlio di Noè. Ma la critica non può accettare queste affermazioni, e per essa Taras, invece di un personaggio storico, è solo un eroe da favola, del ciclo dell’Apollo greco”. A sostegno di questa affermazione, Lenormant aggiunge: Les évènements... Gli avvenimenti dei due primi secoli della storia di Taranto sono assolutamente sconosciuti”.
Comunque le versioni – riguardo ai due personaggi - giungono alla stessa conclusione: abbandonare Sparta e mettersi alla ricerca di una nuova patria.
Guidati da Falanto, i parteni sbarcano sulle nostre coste, nell’ampio golfo di Saturo così come aveva predetto l’oracolo. Gli japigi, abitanti del piccolo villaggio di Saturo, presi alla sprovvista, fuggono abbandonando le proprie case e i propri attrezzi. Nell’allontanarsi dalla propria terra gli indigeni invocano disperati la dea Saturia, loro protettrice.
Una volta occupata Saturo e le terre circostanti i parteni devono fronteggiare le ostilità degli japigi che, ripresisi, non intendono rinunciare alla loro terra. Le ostilità durarono a lungo e solo dopo molti sforzi si giunse ad una pacifica convivenza. Ma Falanto era triste perché sapeva che non era quella la terra che l’oracolo gli aveva predetto.
“Cercava di consolarlo la moglie, sinché un giorno, mentre egli se ne stava con il capo poggiato sulle ginocchia di lei, intenta a liberarlo dai fastidiosi insetti, proruppe in lagrime si da bagnargli il capo” (Ciaceri).
Rapido, Falanto balzò in piedi e ricordandosi dell’oracolo, ne capì il significato. In effetti, la moglie si chiamava Etra, la stessa indicavano il “cielo sereno”. Quindi le lacrime rappresentavano la pioggia che cadeva mentre il cielo era sereno.
Finalmente rincuorato, Falanto “la dimane radunati i compagni partessi e giunto di notte a vista della città di Taranto, datole improvviso assalto si impossessò e la fece sua dimora”. Così il De Vincentiis che attinge a Pausania.
Dai dati storici e dall’esame dei reperti archeologici si può appianare che tutto ciò avvenne nel 706 a.C. È Taranto, la città fondata da Taras sulla cui figura non abbiamo che leggende in contrasto fra loro. C’è chi lo dice figlio di Apollo, chi figlio di Nettuno, o Poseidone, e di una ninfa indigena, chi di Laturia figlia di Minosse. Partito dall’isola di Creta, con alcune navi, dopo molte peripezie, era approdato presso la foce di un fiume al quale aveva dato nome Tara, ancora conservato, a ovest della Taranto odierna a circa 6 km da Massafra. Mentre egli e i suoi compagni offrivano un sacrificio al dio Nettuno — o Poseidone — apparve un delfino. Questa apparizione giudicata come un segno di augurio convinse i cretesi a fermarsi e a fondare una città alla quale diedero il nome di Taras. Ma quando avvenne tutto questo? Anche qui vi sono diverse ipotesi che riportiamo per un doveroso riconoscimento agli studiosi locali. Dice Cataldantonio Carducci Atenisio nel commento a “delle delizie tarantine” di Tommaso Nicolò d’Aquino; “Tara fondò Taranto negli anni del Mondo 3742; 1500 dopo il Diluvio, e 705 prima dell’edificazione di Roma, come fra gli altri rapporta il Giovio”.
A sua volta, il padre Domenico Ludovico De Vincentiis, rettore domenicano, nella sua “storia di Taranto” scrive: “Tara, approdato nelle vicinanze di un fiume al quale diede il suo nome, vi edificò la città di Taranto verso il 1905, secondo il computo di Timoteo, che corrisponde al 2019 a. l’E.V. e 1266 prima della fondazione di Roma nelle adiacenze del fiume”.
Possiamo, quindi, essere relativamente sicuri che la data di fondazione della nostra città risale al 707 a.C. senza però dimenticare gli insediamenti dello “Scoglio del Tonno” i cui reperti rimontano al 2800- 2300 a.C. C’è da aggiungere che Taras “un dì facendo sacrificio al suo genitore presso il fiume vi cadde disgraziatamente, e trascinato dal corso di esso al mare più non comparve”. Così il De Vincentiis che, da buon domenicano aggiunge: “la credula devozione dei tarantini ritenne essere stato assunto in cielo e gli eressero un tempio e un simulacro sotto le sembianze di vaga giovinetta con le chiome d’oro scarmigliate e cadenti sugli omeri ed assiso su di un cavallo marino, simbolo del dominio terrestre e marittimo. In seguito eressero un altro tempio al padre Nettuno”.
Evidentemente con questa precisazione, De Vincentiis vuole indicare il tempio di cui si vedono i resti in Piazza Castello, nelle due imponenti colonne doriche.
La leggenda di Falanto
Un mitico eroe che viene sempre rappresentato a cavallo di un delfino
Da quanto abbiamo detto finora appare evidente la sovrapposizione di due personaggi che, con peripezie quasi simili, sono giunti sulle nostre coste: Taras e Falanto.
Ma neanche l’altro protagonista, Falanto, è più fortunato: "Non v’ha dubbio che sia personaggio puramente leggendario, il quale, già nei più antichi stateri di argento tarantini della seconda metà del VI secolo che portano la leggenda Taras, compare ignudo e a cavallo di un delfino, secondo il racconto che il delfino appunto lo faceva trarre a salvamento sulla spiaggia" (Ciaceri).
Di parere diverso è Giulio Giannelli in Culti e miti della Magna Grecia quando scrive: Taras e Falanto furono evidentemente due personalità mitiche distinte; nonostante l’affermazione in contrario di un moderno studioso — il Buslepp —, si può sostenere, sorretti da tutti i dati delle fonti, che i due eroi non solo si rivelano nettamente diversi nelle origini, ma che, anche nei tempi più tardi, non si arrivò mai a confonderli, ma soltanto ad attribuire all’uno parte del patrimonio mitico prima legato alla figura dell’altro.
La figura di Taras — continua il Giannelli — ci apparisce del tutto secondaria: egli è l’eroe eponimo della città - e ogni città, lo sappiamo, ne ha regolarmente uno - e al tempo stesso del piccolo fiume che ne bagna il territorio; ne abbiamo nella Magna Grecia e in Sicilia esempi significativi e numerosi.
Ma la risonanza di Taras fu esagerata dall’essere stato egli identificato col cavaliere sul delfino disegnato sulle monete arcaiche di Taranto.
Con una serie di documentazioni il Giannelli conduce: Falanto è dunque il vero eroe della ktisis tarentina.
Circa l’occupazione della città da parte dei parteni di Falanto abbiamo due versioni.
Secondo Antioco i nuovi venuti trovarono amichevole accoglienza presso gli antichi abitanti; secondo Eforo, invece, vi furono aspre contese. Comunque siano andati i fatti, gli indigeni ed i cretesi accettarono in gran parte l’installazione dei parteni nella loro città, la quale, in verità, sotto la guida severa di Falanto s’ingrandì e si rafforzò acquistando grande rinomanza tra i popoli vicini. Ma vi furono anche dei cittadini che non accettarono questo nuovo status per cui abbandonarono la città e si rifugiarono a Brindisi che, anche per questo apporto, si avviava a diventare un centro importante. Ben presto, però, i rapporti tra Falanto e i cittadini indigeni, cretesi, spartani, divennero insostenibili. Da una parte c’era l’abitudine alla libertà nel senso più ampio della parola, dall’altra la volontà di Falanto di imporre una rigida osservanza delle leggi. Una spedizione costrinse ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Brindisi dove maturò l’intenzione di riunire tutti i malcontenti e marciare sulla città che lo aveva mandato via e farle pagare l’affronto che gli aveva fatto.
Ma quando il suo sdegno si fu placato, sentendo prossima la fine, chiese che alla sua morte le sue ceneri fossero portate a Taranto e fossero sparse segretamente sulla pubblica piazza perché l’oracolo aveva predetto che gli spartani avrebbero conservato il possesso della terra su cui fossero sparse le sue ceneri.
I tarentini, commossi da tanta grandezza d’animo, pentiti della loro ingratitudine verso il loro antico capo, gli decretarono onori divini. Per questo nelle antiche monete di Taranto appare la figura di Falanto a cavallo di un delfino con un elmo il mano.
In conclusione possiamo dire che Sparta è, in rapporto a questa storia, non un punto di riferimento rispetto all'eroe Falanto, quanto piuttosto l'oppressore che costringe all'esilio e poi a fuggire anche da Taranto finendo per diventare, come leggenda, un punto dirimente della nostra cultura magno greca unica, irripetibile, autoctona, con radici cosi profonde nella nostra terra. (fonte Giacinto Peluso e nostre elaborazioni)
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