E' che le parole del tempo hanno finito per raccontarci di un presente ricco di banali mistificazioni. E' che la disarticolata dialettica occidentale, con cadenza puntuale, perora la causa della memoria, del ricordo, di una presunta superiorità, ma, all'antitesi della riluttanza verso tutto ciò che è "altro", miseramente si arena. Decora calendari di ricorrenze tratteggiate e ripassate col nero, l'Occidente. E deve segnarle per forza, poiché, sfortunatamente, soffre di amnesie a breve e a lungo termine. Sicché, disperatamente piange i morti, ma, scordandosene, presto li uccide due volte.
Penso alla strage dei bambini nell'inferno di Aleppo, alla parola "genocidio", nell'anno 2016. Per un attimo, immagino qualcuno di quei morti. In quale parte dell'universo si risveglieranno i bambini senza infanzia? In quale pezzo di cielo avranno sogni e giorni migliori?
E penso che il tempo della storia scorra su un piano solo suo, tutto suo, maledettamente suo. Dilatato, dilaniato, straziato dall'implacabile oblio di cose e persone. Condannato all' "eterno ritorno dell'uguale", sempre fedele a se stesso. Orrore che rinasce e muore e ricomincia, all'infinito.
Leggo di questo mondo sufficientemente lontano, perché non vi sia onere di molesta fratellanza. Apprendo delle bombe anti-bunker, dell'assenza di medici, della fame, della distruzione. Una favola triste, che però non ci riguarda. Viene quasi da sorridere per lo sdegno forzato del mondo per il diritto negato all'istruzione, innanzi all'obiezione folle del diritto primario all'esistenza stessa.
Ha dell'assurdo, l'egoismo umano: dare la vita, perché possa sopravvivere il nulla. Senza volerlo, uomini, donne e bambini: eroi accidentali di uno spietato destino. Immolati sull'altare del male, affinché qualcuno possa un giorno piantare una bandiera sulla loro terra.
Ci arriva qualche foto. Macerie ovunque, e ti accorgi che, a furia di scavare nella storia, prima di tutto a venire fuori è sempre il dolore. E poi il dolore, ancora. Dall'altra parte, l'indignazione flebile del resto del mondo. L'urgenza d'un ripensamento della vita, delle priorità, del senso di tutto. Il disincanto d'una realtà che ha perso il filo e non trova la via, la verità, la vita.
Viene da chiedersi come la grandezza di pensiero di certi uomini possa conciliarsi con la bestialità di altri e di quali e quanti paradossi si rivesta l'animo umano. E se la storia, nella pratica quotidiana, non è poi una così buona "magistra vitae", forse la storia del pensiero umano può esserlo di più. Mi vengono in mente le parole del filosofo Kant, che da sempre mi accompagnano, quando scrive che "l'umanità è essa stessa dignità". Idea verticale e orizzontale del bene, nel carattere d'una dignità ineliminabile ed intrinseca alla stessa natura umana.
Quanto di Dio c'è in così poche parole! Inno all'esistenza, squarciata, ieri come oggi, e probabilmente domani, dallo spreco di un valore non quantificabile. Lode alla non rassegnazione, questo è. L'uomo, fine in se stesso, mai dovrà essere usato come mezzo, neppure in vista di altri fini. L'assenza di relatività d'ogni cuore pulsante si inginocchia davanti all'incondizionata accettazione di un rispetto per la vita che ci rende tutti uguali e che è naturale pretendere. Ancora, dopo secoli, le parole di Kant, vestite di universale bellezza, incredibilmente e come tutto ciò che è troppo autentico per essere assoggettato alla logica di spazio e tempo, risuonano come un invito alla restaurazione della centralità dell'essere umano.
E, forse, è proprio nell'esperienza del limite che, all'umanità intera, spetta l'obbligo perentorio di riscoprire la vita nel dolore. Prima e oltre ogni respiro spezzato, arrancando dentro confini d'insanabile inadeguatezza, solo recuperando l'umanità vinceremo la nostra finitezza.
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