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Lunedì, 19 Febbraio 2018 08:39

Alessandria - Verso l'appello del processo ambientale Solvay, Medicina Democratica «riparare l'ingiusta sentenza dell'Assise»

Written by  Lino Balza
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La sentenza della CORTE D’ASSISE DI ALESSANDRIA, 6 GIUGNO 2016, PRESIDENTE EST. SANDRA CASACCI, è ingiusta verso l’ambiente, le vittime e le generazioni future, squilibrata e sbagliata sul piano tecnico giuridico, mortificante sul piano etico morale.

La sentenza è condizionata dal pregiudizio che la pena prevista dall’art. 439 è estremamente severa: delitto doloso a danno della collettività.

Facile applicare il 439 ad atti di istantanea natura politico-terrorista, quale quello del sabotaggio mediante versamento di veleno nelle condutture idriche. Altro coraggio giuridico ci vuole (e se non c’è, non te lo puoi dare) per condannare finalmente, quasi per primi in Italia, permanenti condotte imprenditoriali di avvelenamento delle acque di falda, quando manca l’esibizione della “pistola fumante”, cioè il morto, anche se avvelenati e morti, lo sa bene Casacci, eppur ci sono, ma vanno ignorati perché non fanno parte del capo di imputazione, che è l’avvelenamento delle acque di falda. Avvelenati e morti a cui questa sentenza preclude il riconoscimento di giustizia e risarcimenti futuri.

La pregiudiziale di eccessiva severità sanzionatoria dell’art. 439 porta la Corte, da un lato, a formulare una interpretazione di questo articolo che, reato doloso, a tutela della salute pubblica, invece alla lettera è chiarissimo:

“Chiunque avvelena acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per consumo, è punito con la reclusione non inferiore a 15 anni”.

Dall’altro lato, a individuare in alternativa un reato più lieve, colpa e non dolo, perché in coscienza è indubitabile che il disastro ecologico di proporzioni immense c’è, “non solo rilevante ma difficilmente reversibile” (sic), dunque sarebbe clamoroso contravvenzionare o assolvere. Però bisogna eliminare, sostituire la parola “avvelenamento”.

Come redatta da dottor Jekyll e mister Hyde, la sentenza per larghissima parte dimostra, con puntigliosa analisi della vicenda storica all’origine del procedimento, dei dati di indagine e del percorso dei contaminanti, del modello idrogeologico del sito, dimostra che la falda della Fraschetta, tanto quella superficiale che quelle profonda, per chilometri a monte addirittura dello stabilimento di Spinetta Marengo e fino al fiume Bormida, senza soluzione di continuità fra Ausimont e Solvay, è fortemente e in progresso inquinata (o avvelenata? n.d.r.) da un cocktail di sostanze tossiche e cancerogene immesse nel passato e/o nel presente dall’industria chimica, “con concentrazioni superiori ai valori di soglia di parecchie decine di volte, di centinaia di volte, talvolta anche di migliaia di volte” (sic).

La Corte dimostra inoltre, documentalmente, che i dati del grave inquinamento (avvelenamento) erano conosciuti tanto da Ausimont che dalla subentrante Solvay, anzi nascosti agli Enti pubblici, edulcorati, in doppia forma, contraffatti. Con altrettanta puntigliosità Casacci analizza le cause dell’inquinamento (avvelenamento) della falda, conosciute e nascoste e contraffatte tanto da Ausimont che da Solvay: le discariche non autorizzate e gli stoccaggi tossico cancerogeni, le perdite di acqua di processo e di raffreddamento (300 mc/h), le perdite di rete fognaria, l’assenza di manutenzioni, il dilavamento e la percolazione anche delle acque meteoriche, l’alto piezometrico, quanto meno 800.000 metri cubi di terreno contaminato pari a oltre 1.150.000 tonnellate. E dimostra, tanto per Ausimont che per Solvay, che non solo l’inquinamento (avvelenamento) era conosciuto ma anche che dello stesso si ritardasse la bonifica con diversioni, menzogne, silenzi strategici, inutili pozzi barriere, il tutto equivalente a produrre contaminazione e ad aggravala (sic).

Fino a questo punto della sentenza, la Corte di fatto ha dimostrato il dolo: “Alla fine di questa parte dell’esposizione, può affermare che, a fronte di un sito altamente contaminato, fonte di grave inquinamento veicolato nella falda acquifera sottostante lo stabilimento e migrante all’esterno, potenziato nei suo nei suoi effetti di dispersione da ulteriori condotte attribuibili alla gestione industriale per l’esistenza di perdite che incrementavano il percolamento, la solubilizzazione, la lisciviazione dei contaminanti di cui il terreno era intriso, nessun reale e serio intervento è stato compiuto, nel periodo di imputazione, per la rimozione delle fonti inquinanti (terreni contaminati), l’eliminazione delle perdite che cagionavano la diffusione delle sostanze tossiche, il contenimento del flusso della sua espansione verso l’esterno”. Più “dolo” di così! Eppure…

A questo punto, se il pregiudizio è l’aspra pena dell’art. 439, occorre smontare due architravi del capo di imputazione: il dolo e l’avvelenamento.

Compito non facile in quanto la falda inquinata (avvelenata) è qualificata espressamente “riserva idrica” dal Piano regolatore comunale e dal Piano di tutela delle acque della Regione, dunque trattasi di acque destinate all’alimentazione (destinate, art. 439). “Destinabili” ma non “destinate” si interroga Casacci in uno slalom di citazioni e soprattutto ripetendo la considerazione della pregiudiziale. E precisando (salvo smentirsi poco appresso): va inteso acque esclusivamente destinate ad uso alimentare diretto e immediato, insomma bevute direttamente dall’uomo e giammai indirettamente ingerite consumando cibi avvelenati quali verdure latticini animali che hanno assunto veleni tramite radici o abbeveramenti. Ad ogni modo la Corte, elencando il numero dei pozzi privati e pubblici, conclude infine: “In conclusione. Poiché molteplici sono le fonti di attingimento anche per uso alimentare dalla falda sottostante lo stabilimento e le zone limitrofe, la Corte afferma che l’acqua in esso [acquifero] contenuta era destinata (anche) all’alimentazione”. Dunque art. 439. Però c’è un però.

Però è acqua solo inquinata o anche avvelenata? Altro paletto di Casacci: l’unico riferimento deve farsi al D.Lgs 31/01 che prevede parametri meno severi del successivo D.LGS 152/06. Ebbene, secondo la Corte, dal punto di vista qualitativo non c’è dubbio che trattasi di “veleni” tossico cancerogeni, senza considerare che sono combinati in un cocktail con effetti probabilmente esponenziali. Veleni: d’accordo, ma sotto l’aspetto quantitativo? Altro paletto: non deve considerarsi l’unicità della falda avvelenata, bensì solo i pozzi che vi pescano per uso alimentare, per i quali i superamenti delle acque sotterranee sono definiti “modesti” e quindi il rischio “accettabile” degli effetti tossici e cancerogeni. E quando questi superamenti non sono “modesti” bensì palesemente abnormi? Allora i pozzi privati vengono declassati a “pozzi irrigui” per colture e bestiame (chissà poi perché considerati non anche utilizzati per diretta alimentazione umana visto che non vi erano allacciamenti con l’acquedotto comunale?!).

Non solo, la sentenza si contraddice clamorosamente (pag. 222) quando ammette: “Quanto all’attingibilità, basterà evocare i pozzi della cascina Pederbona, investita in pieno dal pennacchio di contaminazione che fuoriusciva dallo stabilimento, pozzi che, durante tutto il periodo di imputazione, hanno fornito acque irrigue per le colture dell’azienda agricola e per l’abbeverata degli animali da latte, quindi per scopi strettamente connessi con la vita umana, anche sotto il profilo dell’alimentazione, sia pure mediata, attraverso i prodotti dell’allevamento”.

Di più. Il pozzo dell’acquedotto denominato Bolla, che pesca in falda profonda, è stato addirittura chiuso dall’Arpa, ma non farebbe testo perché i valori sono stati rilevati da “apparecchiature particolarmente sensibili” (sic).

Di più. Perfino per il pozzo 8, destinato ai lavoratori e ai cittadini del sobborgo, che già nel 1988 l’azienda considerava pericoloso e da chiudere, che pesca a 100 metri dunque in falda profonda, posto addirittura sotto lo stabilimento, vietato in zona di rispetto e tutela assoluta, addirittura tenuto in funzione anche dopo l’avvio 2001 della (presunta) bonifica, addirittura attivo fino al 2008 apertura processo, perfino per il pozzo 8 il rischio tossico e cancerogeno è definito “accettabile” in quanto i superamenti dei limiti previsti per le acque sotterranee sono definiti “irrilevanti”. Ma in altra parte della sentenza (pag. 157) se ne è scritto “le concentrazioni di cromo esavalente e tetracloroetilene hanno superato” e non di poco! “anche i limiti del D.Lgs 31/01 sulle acque potabili”!

Clamoroso che la sentenza dimentichi la testimonianza della stessa teste della difesa: sui rubinetti dei servizi dei dirigenti era apposto il cartello ACQUA NON POTABILE. Mentre tutti gli altri dipendenti e abitanti erano tenuti all’oscuro! La rivelazione viene attribuita in sentenza solo a Lino Balza.

L’altro pozzo, denominato 2, ad uso potabile dentro lo stabilimento, superficiale e sicuramente avvelenato, viene chiuso solo nel 2001.

Sostituendo la dizione “avvelenamento” con “inquinamento”, eliminato così l’art. 439 severamente sanzionatorio, doloso, scartata anche la severa Legge Ecoreati, alla Corte viene all’uopo il solito art. 434: lieve reato di disastro ambientale innominato, colposo, applicabile perfino per l’acqua destinata al riempimento delle piscine: non occorre neppure provare il danno, basta il pericolo per la pubblica utilità.

Conseguentemente alla derubricazione, gli imputati principali, gli amministratori delegati, diventano ingombranti perché il reato di dolo emergeva volente o nolente da tutte le parti della sentenza. Servono capri espiatori. A questo punto la sentenza introduce il concetto, anzi il principio di “delega”: gli amministratori avrebbero delegato la gestione del disastro ambientale ai piani inferiori, a direttori e responsabili sicurezza.

Qui la sentenza frana definitivamente: un disastro ambientale di portata nazionale, storico, conosciuto da tutti, conosciutissimo dagli amministratori delegati che per esso avevano contrattato un forte sconto sul prezzo di acquisto (sic), oggetto di interrogazioni parlamentari, di continue (e specifiche: sulle falde) denunce pubbliche per le quali Lino Balza viene licenziato, di lettere aperte di Balza via fax e sui giornali, un disastro ambientale che necessitava (e necessita) investimenti di risanamento miliardari, avrebbe dovuto –per delega- essere risolto con quattro soldi dai direttori!

Restiamo piuttosto nei limiti della logica, perbacco. Gli amministratori, Carlo Cogliati per Ausimont e Solvay, Bernard de Laguiche e Pierre Jaques Joris per Solvay, secondo strategia aziendale hanno deliberatamente scelto di minimizzare i costi e massimizzare i profitti, scelto di non investire miliardi per bonificare l‘ambiente coscienti che stava addirittura peggiorando. Ai sottoposti non restava altro che completare le loro condotte omissive e commissive (compito svolto con diligenza). La Corte si rende conto di aver scritto: Tutti gli amministratori sapevano -e questo lo si dà per scontato- che il sito presentava problemi di gravi inquinamento, ma non si può affermare che essi avessero comunque il dovere di attivarsi e di risolverli, una volta che esisteva una struttura articolata e deputata alla gestione di questi problemi, prima di tutto attraverso il direttore di stabilimento e poi attraverso i responsabili della funzione ambiente”? E con quali soldi, di tasca loro!?

Il “principio della delega”, cara Corte, sarebbe valido se il delegante fornisse al delegato i mezzi per raggiungere gli scopi. Invece i poteri di spesa dei direttori per la gestione ordinaria erano (sono) ridicoli rispetto agli investimenti necessari alla risoluzione del disastro ambientale: unicamente gli amministratori potevano decidere i finanziamenti. Come fa la Corte ad affermare che gli amministratori… non erano stati informati della necessità di tali spese, richiesti di autorizzarle e perciò non le avevano autorizzate? E perchè mai, un direttore avrebbe dovuto assumersi un tal mal di pancia. Ma se poche pagine prima proprio la Corte aveva scritto che “gli amministratori sapevano e questo lo si dà per scontato”!

E poche pagine dopo la sequenza logica della sentenza invece scorre così: 1) “i vertici aziendali avevano convenientemente e correttamente delegato la gestione dell’intera problematica”, 2) “la problematica è stata oggetto di colpevole sottovalutazione da parte dei soggetti che erano stati investiti dal potere/dovere di intervenire”, 3) “tale sottovalutazione è stata trasmessa dai responsabili anche ai vertici aziendali”.

Conclusione: i vertici assolti per non aver commesso il fatto e i pesci piccoli, nulla più che pasticcioni e imbroglioni, sui capri espiatori non si può infierire, condannati per colpa, lievissima colpa. 2 anni e 6 mesi per Luigi Guarracino, Salvatore Boncoraglio, Giorgio Canti e Giorgio Carimati, prescrizione per Giulio Tommasi. Lievi pene perché in fondo, scrive la sentenza, essi hanno “sottovalutato, trascurato, male interpretato tutti i segnali di allarme che si andavano manifestando da molto tempo, dall’inquinamento della falda profonda, all’espansione dei contaminanti fuori dal sito industriale… senza segnalarli alle autorità in modo completo e chiaro, senza predisporre adeguate misure, senza [sic] proporre agli amministratori dell’azienda idonee azioni di contrasto”. Insomma, più realisti del re, hanno imbrogliato il povero re. Lievi condanne compensate da adeguati stipendi ma che comunque i quattro in appello cercheranno di scrollarsi di dosso affermando che avevano funzioni meramente consultive, senza procure, senza poteri di spesa significativi. Non solo, malgrado la beneficenza di pena goduta, potranno addirittura impugnare la diversa qualificazione giuridica della sentenza rispetto al capo di imputazione.

Per quanto riguarda il secondo capo di imputazione, reato di omessa bonifica, in due paginette la sentenza assolve tutti gli imputati perché il fatto non sussiste. Conclude la sentenza non riconoscendo al Ministero dell’Ambiente in sede penale il danno ambientale (richiesti 100 milioni di euro come provvisionale) per omessa bonifica, avvelenamento della falda profonda e del territorio, e del fiume Bormida, né il danno alla salute dei cittadini. Viene invece riconosciuto, fa un po’ ridere, il danno all’immagine del Comune. No comment sui risarcimenti morali agli Enti esponenziali. Nessun risarcimento alle parti civili a titolo dei decessi e delle malattie, di cui il processo non si è occupato.

Tra le righe della sentenza : la sottolineatura al ruolo svolto ininterrottamente da Medicina democratica ( ovvero le rappresaglie a Balza, compreso il licenziamento) da 40 anni a denunciare ciò che solo nel 2008 è diventato capo di imputazione del processo. Capo di imputazione che, per quanto sopra tutto dimostrato, non può non essere accolto in Appello.    

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