Ha concluso il Convegno il prof. Paolo Ridola, preside della Facoltà di Giurisprudenza della Università “La Sapienza” di Roma. Mi permetto di svolgere qualche riflessione, a margine di quel che ho ascoltato. E spero d’essere perdonato, se sarò lungo nel racconto, ma la materia lo richiede.
Il Convegno è stato introdotto da Paolo Mieli. Il suo è stato un intervento molto diretto, mirato a fissare alcuni punti fermi, a suo parere. In primo luogo egli ha tenuto a dire che la vicenda di Aldo Moro è stata oggetto di cinque processi, spintisi ciascuno al grado della Cassazione, e di quattro Commissioni Parlamentari d’Inchiesta. La sua opinione, nonostante le risultanze della Commissione d’Inchiesta parlamentare chiusasi con la scorsa legislatura che pongono numerosi interrogativi aperti, è che la verità sul “caso Moro” si conosca tutta. E che non ci siano oscure trame che non si siano volute scoprire. La verità, sostiene Paolo Mieli, è che chi ha rapito e ucciso Moro, aveva una matrice comunista e nasceva dentro le idee del ’68. L’Italia, secondo Mieli, nel corso del sequestro Moro, si divise tra “fronte della fermezza”, che negava ogni rapporto possibile con le Brigate Rosse, e un fronte della “trattativa”, il quale sosteneva possibile che un gesto di clemenza verso una brigatista detenuta senza fatti di sangue a suo carico, malata e incinta, avrebbe consentito la liberazione di Aldo Moro.
Chi Moro più aveva contribuito a far avvicinare, il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana, furono coloro, sostiene Mieli, che più furono inflessibili. E Mieli cita un passo dalle lettere di Aldo Moro dalla sua prigionia: “ricevo come premio dai comunisti, una condanna a morte”. Sostiene Mieli, sia falsa la ricostruzione storica, secondo la quale Aldo Moro venne rapito ed ucciso per la sua volontà di unione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista; e, tranne coloro che sostennero la possibilità di una trattativa (Socialisti, Radicali, Lotta Continua), in realtà, tutti volevano la morte di Aldo Moro, poiché, come sosteneva lo scrittore Enzo Forcella, “sarebbe stato più semplice occuparsi di Moro da morto, che non da sopravvissuto al rapimento e alla prigionia”. Un’intera classe politica si era perduta allora, ritiene Paolo Mieli; i capi politici della DC, del PCI, del PRI, non furono capaci di far politica, rendendo scoperta una debolezza di sistema, simile a quella odierna.
Il contributo dei professori Marinelli e Politi si sono centrati sulla figura umana di Aldo Moro, sulla sua formazione politica, tesa alla realizzazione di equilibri politici sempre più avanzati; sulla sua considerazione della centralità del Parlamento, nell’ordinamento dello Stato, quale luogo della rappresentanza politica, e quindi del dialogo tra ispirazioni politiche diverse. Sugli interventi di Aldo Moro, nella fase della Costituente, per una Scuola Pubblica al servizio di tutti. Sulla sua costante preoccupazione contro ogni forma di autoritarismo, per questo congiunta ad una azione continua affinché masse sempre maggiori di persone fossero integrate nello Stato, sfuggendo alle seduzioni autoritarie; sulla sua centratura sui valori della Persona, della sua libertà e della responsabilità. Sulla sua tensione ad aderire alla realtà, interpretando con intelligenza gli avvenimenti, e confrontandosi sempre con quanto emergeva nel Paese.
Claudio Martelli ha esordito, nel suo intervento, dichiarandosi completamente d’accordo con le tesi espresse da Paolo Mieli, distanziandosi da ogni ipotesi complottistica, anche relativamente alle stragi di mafia del ’92-’93. Ci sono troppe verità, sostiene Claudio Martelli. Dovrebbero essere noti gli esecutori materiali delle stragi, ma, mentre si ricercano presunti mandanti oscuri e presunte trattative Stato-mafia, in realtà, neanche gli esecutori sono noti, visto che la Magistratura si è lasciata ingannare, in particolare nel caso dell’assassinio del giudice Borsellino e della sua scorta, visto che per quella strage sono state condannate persone, autoaccusatesi, che invece non erano colpevoli. Forse, ritiene Martelli, non è stato del tutto chiarito, nel caso Moro, quali furono le interferenze esterne all’Italia, ed interne, sulla vicenda, capaci di inquinare o sabotare le indagini, in particolare da parte della Loggia massonica P2. Ma non debbono dimenticarsi le verità acclarate e, in particolare, come mai proprio nel caso di Aldo Moro si scelse di non effettuare alcuna trattativa, quando invece, soprattutto successivamente a quell’episodio, si è trattato sempre, anche con forze del terrorismo islamista, per semplici persone o giornalisti; per ogni ostaggio, compreso Ciro Cirillo, per il quale ci si rivolse addirittura alla camorra, perché ne mediasse con le Brigate Rosse, la liberazione.
Si disse, all’epoca, che la trattativa era resa impossibile anche da vincoli di alleanza esterni all’Italia; ma, secondo Claudio Martelli, questo è solo indice di un comportamento costante della politica italiana, quando vuole scaricare le proprie responsabilità. Come avviene con l’Europa oggi, e non si comprende, per quali motivi i cittadini tedeschi dovrebbero accollarsi il Debito Pubblico italiano, cui invece dovrebbe essere nostra responsabilità far fronte. La volontà a non trattare la liberazione dell’ostaggio Moro, fu, per Claudio Martelli, l’atto iniziale dell’antipolitica oggi trionfante. Considerare la politica, contemporaneamente, come massima responsabile della situazione ed inetta a porvi rimedio, è la premessa per avviare una nuova forma della politica, una forma autoritaria. Non più capace di mescolare, élites e popolo. Da quel momento storico, ricorda Martelli, tutta l’area dell’Autonomia Operaia e dei gruppuscoli extraparlamentari, venne assimilata al terrorismo. Non era Moro, ricostruisce Martelli, a volere il cosiddetto “Compromesso Storico”, con il PCI; era questa invece una strategia del solo Enrico Berlinguer. Era l’inizio, allora, di una crisi di sistema. Che oggi dispiega pienamente i suoi effetti. E cui non pare esservi argine.
Il professor Ridola ha concluso il Convegno puntando i riflettori sull’apporto essenziale di Aldo Moro nella scrittura della Costituzione della Repubblica Italiana, in particolare sull’articolazione generale del testo e sull’Articolo 2. E sui costanti assilli, nel suo lavoro politico ed intellettuale: l’insistenza sull’uomo e sulla persona; sulla funzione sociale dello Stato, e addirittura, sulla funzione sociale dei Diritti.
Immagino, ora, di poter esprimere, a margine del Convegno del 9 maggio scorso, sommessamente qualche mia considerazione.
A quaranta anni di distanza dalla tragica fine della vicenda umana e politica di Aldo Moro, credo possa dirsi, con tutta franchezza, che essa resta totalmente aperta. Nella sua analisi storica. Nel giudizio politico su quella temperie. E, per certi versi, persino nel suo concreto svolgersi criminale, come adombra in modo assai inquietante, la Relazione conclusiva della Commissione d’Inchiesta Parlamentare della scorsa Legislatura. D’altra parte, anche Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati processati, riconosciuti colpevoli e assassinati sulla sedia elettrica senza che con questo si possa dire che la verità processuale corrisponda con quella storica. La morte di Aldo Moro, può essere letta in una chiave odierna, come hanno fatto Martelli e Mieli, per regolare vecchi conti politici del passato; tra socialisti e comunisti italiani, e tra PCI e aree extraparlamentari, spesso governate da giovani d’estrazione borghese, per i quali il PCI era il primo nemico da abbattere. Non mi sento in grado, in questa sede, di affrontare una discussione sulla questione fondamentale della necessità di una Trattativa, per la liberazione dell’ostaggio Aldo Moro, o sul rifiuto di essa, in nome della responsabilità a non fornire alcuna legittimazione politica alle Brigate Rosse, non avallando l’idea che in Italia fosse in corso una Guerra Civile, in cui i contendenti avessero pari dignità. Voglio limitarmi a guardare alcune delle conseguenze reali, di quegli accadimenti.
La vicenda di Aldo Moro spiega, secondo Claudio Martelli e Paolo Mieli, ma anche secondo Rino Formica che lo sostiene in un’intervista a “L’Espresso”, sia pure non nei termini ascoltati nel Convegno, il trionfo odierno di forze politiche populiste, la cui origine, è tutta da ricercarsi nel rifiuto ad assumere una responsabilità politica, trattando per liberare l’ostaggio, da parte del Partito Comunista Italiano, in modo particolare, nel cui grembo, erano pure germogliate le Brigate Rosse. La storia degli ultimi quaranta anni, diviene quindi la storia di un fallimento. Quello della ipotesi di condurre al governo del Paese le sue classi subordinate, tradite da gruppi dirigenti, prima incapaci di rispondere politicamente alla sfida lanciata dalle Brigate Rosse, e poi travolti dall’emergere della semplificazione populista di fronte alla crisi globale, ai fenomeni migratori, alle nuove sfide del progresso tecnologico.
E’ una lettura molto partigiana, quella proposta. E senza contraddittorio. Esattamente come accade nel pieno di una battaglia per l’egemonia culturale. In cui chi si senta vincitore, dentro un percorso storico, riscrive i passaggi fondamentali che conducono all’oggi, ad uso e consumo della propria visione del mondo. Perché producano nuovi e coerenti effetti. Aiutata la lettura, in questo caso, anche dall’assordante mutismo di chi potrebbe produrre un’altra visione dei fatti, anche alla luce della propria concreta esperienza storica ed ideale. Ma, nel campo occupato una volta dal Partito Comunista Italiano, e da autorevolissime figure intellettuali, oggi non vi è più nessuno. E non parlo tanto di ideologia o di schieramento. Quanto proprio di presenza politica, di ispirazione ideale e morale. Neppure su un piano culturale, salvo pochissime eccezioni, vi è più qualcuno che abbia la tempra per aprire seri dibattiti storici o sull’attualità, all’altezza della sfida che taluni relatori del Convegno, nel deserto, hanno posto. Un po’ perché quell’esperienza storica non è stata davvero in grado di rileggere se stessa, alla luce degli accadimenti dopo il 1989, e un po’ perché chi si è voluto autonominare erede di quelle esperienze, non ne aveva né lo spessore intellettuale e morale, e, col tempo, ne ha perduto anche ogni credibilità politica.
Io frequentavo la terza media, nel 1978. I ragazzini di tredici e quattordici anni, allora, parlavano abitualmente di politica. Ne avevano esperienza diretta, persino nella periferica Lecce, dove allora vivevo. Mi colpì moltissimo, il giorno dopo il rapimento di Aldo Moro, leggere, sul muro di un palazzo posto dinanzi all’ingresso principale della mia scuola, una grande scritta realizzata con la vernice nera: “Moro: chi semina vento, raccoglie tempesta”. Era firmata “Fronte della Gioventù”, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, di chiara e non rinnegata ispirazione fascista, all’epoca. Lecce esprimeva a quel tempo percentuali di voto per il MSI ben oltre il 10% e Almirante, Segretario del MSI, spesso figurava come Capolista nelle elezioni. Quella scritta, non era casuale. Mi colpì perché, nella mia logica elementare, non riuscivo a comprendere come mai un’organizzazione di Destra attaccasse un politico, oggetto di un atto criminale compiuto da estrema Sinistra. Avrebbe dovuto, sempre secondo la mia logica elementare, invece attaccare la Sinistra, per quel che stava accadendo. Non la vittima di quegli accadimenti.
Nel 1964, quando Moro, per la prima volta Presidente del Consiglio dei Ministri, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana iniziò, esplicitamente, un percorso di coinvolgimento del Partito Socialista Italiano nel governo del Paese, il cosiddetto Centrosinistra, ambienti militari fascisti e reazionari, forse addirittura con il coinvolgimento del Presidente della Repubblica Segni, contrario a quell’ipotesi politica, ordirono il cosiddetto “Piano Solo”, che prevedeva di instaurare un regime autoritario nel nostro Paese, partendo innanzitutto dal rapimento, e internamento, di una serie di personalità politiche, sindacali e della società civile. E’ lunga la storia dell’avversione, anche criminale ed illegale, della Destra del nostro Paese all’ingresso della Sinistra nelle stanze del Governo. Ed è lungo il conto che la Destra voleva presentare ad Aldo Moro.
Il rapimento di Moro, nei fatti se non anche nelle intenzioni, colpiva una politica. E questa politica era segnata dall’ansia di tenere dentro i confini della democrazia le varie ispirazioni ideali del Paese, che avevano contribuito a scrivere la Costituzione della Repubblica. Quell’ansia si legava all’ansia del Segretario del Partito Comunista Italiano, che, all’indomani del sanguinoso Golpe militare realizzato in Cile da Pinochet, nel 1973, aprì una profonda riflessione teorica sulla necessità del dialogo tra le principali correnti ideali della politica italiana, quella d’ispirazione cattolica e quella d’ispirazione comunista, convinto che quella fosse la strada per rendere compiuta la democrazia, in un Paese che non poteva, e forse non doveva, essere governato solo col 51% dei voti. Questioni teoriche, e politiche, di altissimo spessore, trascinate poi nella quotidianità della lotta politica e della banalizzazione esorcizzante, in vuote formulette di alleanze e conflitti elettorali, più o meno possibili o impossibili. Perché quei politici, Moro e Berlinguer, forse senza essere capaci di esplicitarlo compiutamente, erano consapevoli della fragilità storica dello Stato italiano. E loro era l’ansia di agire contro questa condizione. Non è l’Italia, ad essere fragile, la sua identità nazionale o culturale. Ma la sua costruzione statuale. Esposta. Allora, come oggi.
Non è un caso, io credo, che ad essere uccisi, dalla criminalità organizzata, o dal terrorismo, siano stati, nel tempo, prevalentemente “Uomini di Stato”. Uomini cioè che hanno posto sé stessi e la propria opera, a servizio della Costituzione e delle Leggi. Perché è interesse di ben delineati poteri che lo Stato sia fragile, governato da uomini ricattabili. E io credo si possa dire, ad onore dei fatti, ma con grande dolore, che la violenza politica, in Italia, ha preso la mira benissimo, ed ha ottenuto i risultati che si prefiggeva. La morte di Aldo Moro ha cancellato definitivamente, dall’agenda politica italiana, la possibilità che vi fosse una azione politica qualsivoglia capace di condurre il PCI, libero finalmente dalle proprie ambiguità, dentro il possibile governo del Paese. Chi liquidi questa questione, esprimendo facili ed affrettati giudizi ex post, o riconfermando antichi livori, in realtà elude una questione di fondo, questa sì, all’origine delle soluzioni semplificatrici e pericolosamente autoritarie e populiste dell’oggi. La questione cioè se sia possibile, in Italia, che la politica svolga anche una funzione pedagogica, capace di educare alla Democrazia, al libero e consapevole e pacifico confronto e conflitto, tutti i cittadini, e non solo una parte di essi, lasciando magari indietro le aree più emarginate e deboli. Conferendo, attraverso la partecipazione democratica, pari dignità alle diverse prospettive di governo. A tutte le prospettive, anche quelle che si propongono di rimettere in discussione storici equilibri di potere.
A me pare che gli interventi “politici” al Convegno, abbiano invece delineato, sia pure per cenni e rimandi, una prospettiva che derubrichi l’esperienza politica di Moro, ma anche e soprattutto del PCI, ad un tentativo episodico, e sin dalla sua nascita fallimentare, di redimere le classi subalterne del Paese conducendole alla dignità del Governo. Tali classi subalterne, oggi affascinate dalla semplificazione offerta loro dalle piattaforme informatiche, su cui esprimere pareri superficiali ed insultanti su tutto, che veicolano i contenuti di una proposta politica populista, saranno inevitabilmente ricondotte a ragione, dalle Leggi bronzee del Mercato, che le obbligherà a pagare il prezzo dei vecchi errori di chi ha allargato le possibilità materiali, migliorato le condizioni concrete, fatto balenare l’aspirazione ad una vita ricca di possibilità e diritti. Certo, le contraddizioni del peculiare “Stato Sociale” italiano sono enormi e andrebbero aggredite, in nome di una più stringente idea di Eguaglianza e di Giustizia Sociale, oltre che di un fondamentale rigore nei bilanci. Ma quel che viene adombrata è la caduta rovinosa e, finalmente, il governo di quelli che sapranno stare nel modo giusto dentro un mondo di capitali globalizzati ed essi sì, liberi.
Infine. La morte di Aldo Moro, segna in realtà, a me pare, l’inizio di un ulteriore processo cui non sono estranee responsabilità individuali e politiche pesantissime. Anche di quella politica che si richiama, e si richiamava, ad ideali di Sinistra. Segna l’inizio della fine della partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, attraverso i corpi intermedi della Società, Partiti e Sindacati in primo luogo. Cui non si riconosce più un ruolo di promozione individuale e collettiva. Si tratta di un processo che si dispiegherà innanzi tutto, a partire dal forsennato attacco del neoliberismo globale alla mediazione sociale: l’uomo, e la donna, devono essere soli dinanzi al Mercato. E che, in Italia, conoscerà gli accenti durissimi di una folle idea giustizialista che accomuna nella esecrazione morale il semplice iscritto ad un Partito ad un suo dirigente, magari corrotto o colluso, fino a cancellare l’idea stessa della forma-Partito dal diritto di cittadinanza politico. Quella idea di Partito che i Costituenti, tra cui Aldo Moro, avevano posto invece alla base della possibilità di emancipazione delle classi subalterne del Paese, attraverso la partecipazione alla vita democratica.
Quanto al Sindacato, la compagine che si appresta a guidare il Paese si incaricherà di delinearne l’espulsione finale e definitiva dall’orizzonte degli italiani. Dopo i colpi pesantissimi ricevuti dai precedenti governi d’ogni colore politico. Del resto, è da sempre “vox populi” che la colpa sia sempre e tutta del Sindacato, che stavolta non troverà nessuno a difenderlo. Mi fanno rabbia, quei dirigenti sindacali (minuscolo), che pensano si possa ancora discutere che ancora vi siano spazi politici, che ancora si affannano in congressi totalmente autoreferenziali, avendo purgato da sé ogni contraddizione della realtà, ignorando il dolore vero della precarietà generalizzata, la periferizzazione coatta della vita nelle città. La solitudine delle persone, di fronte ad immense contraddizioni e problemi reali. Gli immensi potenziali conflitti, anche violenti, tra chi si sente sommerso e chi, erroneamente, pensa d’essersi salvato.
Insomma, una volta archiviata la ricca esperienza storica, ed ideale, delle correnti di ispirazione cattolica e comunista italiana, nel nostro Paese, sarà finalmente possibile rivedere la Costituzione della Repubblica Italiana in modo da sancire, anche formalmente, la preminenza del comando sulla Partecipazione. E sarà finalmente possibile dare il potere che spetta loro, a quelli che da tempo sono i sacerdoti del Libero Mercato finanziario globalizzato. E le classi dirigenti italiane, quelle vere, quelle che governano la vita delle città da sempre, potranno finalmente dire che “tutto deve cambiare, perché tutto resti come prima”. Ma davvero, però.
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