Benvenuti nel Medioevo prossimo venturo. Arriverà: è solo questione di tempo. Nessuno, a ricordare la fine di quei giovani arroganti e sfortunati assunti dalla Lehman Brothers per finire su un marciapiede con uno scatolone pieno di faldoni di carta e matite temperate – tutto ciò che restava della loro sicumera, roba buona al massimo per un falò delle vanità – nessuno dicevamo ha osato finora sussurrare due parole di ottimismo. Eppure Wall Street tira come un toro a Pamplona, eppure la crescita è appena sotto il 2 percento anche nei paesi europei più pelandroni, eppure gli indici dicono sereno.
Sì, tutto bene, ma vallo a cercare sui giornali il titolo “La crisi è finita”, come dissero una mattina del 1934 gli americani che si erano affidati a Franklin Delano Roosevelt. Semmai è il contrario: a spulciare i ricordi, ormai a decine, che in questi giorni la grande stampa dedica all’anniversario di quella banca d’affari crollata all’improvviso, come se fosse fatta di calcestruzzo, non si trova una sola nota di ottimismo. Perché l’ottimismo morì quella mattina del 15 settembre 2008, chiuso a soffocare in una scatola di cartone.
Ha vinto il mercato, fine della storia
Fino ad allora un mondo dominato dal verbo rivelatore della globalizzazione, che non ammetteva eterodossie, e stordito dalla vittoria dell’economia di mercato sul modello dirigista-statalista-socialista, si era trastullato in una glossa del pensiero liberista. L’idea era che il mercato bastasse lasciarlo libero, e con una sua manina invisibile avrebbe sistemato tutto, anche le storture che esso stesso via via andava provocando.
Lo sosteneva persino Adan Smith, e allora perché dubitarne? Del resto chi l’aveva vinta la Guerra Fredda, l’America energizzata dalla deregulation reaganiana o quelle femminucce degli Europei, con il loro burro sul pane al posto dei cannoni? Si contentassero, quei fortunati, che erano stati salvati una seconda volta come nel ’45, e imparassero che la Storia era finita. Per sempre. Lo teorizzava anche Francis Fukuyama, uno che aveva studiato Hegel.
Ma una mattina, una banca nel South Carolina (ma poteva essere anche in Oregon come in Alabama, la sostanza è quella) convocò un padre di famiglia insolvente e gli chiese conto del ritardo nei pagamenti. Poi, di fronte ad una risposta insoddisfacente, gli portò via la casa perché così voleva Adam Smith. E fu l’inizio della fine.
Una banca piena di spazzatura
Quel povero padre infatti aveva comprato casa con i soldi di un mutuo che i guru di Wall Street chiamavano subprime. Una ciofeca che aumenta a dismisura il rischio per il debitore (al quale si può portare via la casa con facilità) ma anche per il creditore: tutto si basa sull’espansione all’infinito di quei prestiti sciagurati. Come in una piramide finanziaria di quelle inventate da Ponzi.
E quel povero padre fu solo il primo: la sua insolvenza innescò un meccanismo diabolico di altre centinaia di migliaia di insolvenze, che prima erano delle famiglie ma poi divennero delle banche e poi delle banche ancora più grandi e poi di quelle colossali e poi di quelle megagalattiche. Ed alla fine arrivarono a loro, ai ragazzotti della Lehman. La punta della piramide. Quattro miliardi di dollari di esposizione, le altre sorelle come la Barclays che si rifiutarono di intervenire, soprattutto Wall Street che perde in una sola mattina 500 punti. Ecco cosa accadde dieci anni fa. E sembrò, giustamente, una replica del ’29.
La crisi che ne scaturì, infatti, fu la peggiore da quei tempi. Una depressione mondiale dalla quale siamo usciti con grandi fatiche e facendo pagare il conto, spesso, ai meno abbienti e al ceto medio. E questo giustifica il pessimismo strisciante di questi giorni.
Se anche i giornali vedono nero
Più che strisciante, se persino il Wall Street Journal, che pur dovrebbe essere l’avvocato d’ufficio del sistema, parla di pericolose amnesie e di analisi avventate quanto trionfalistiche da parte degli istituti di credito. Quanto al New York Times, le previsioni sono sconsolate: i motivi per un nuovo capitombolo ci sono ancora tutti: “La Grande Recessione è ancora tra noi, nascosta appena sotto il pelo dell’acqua”.
Il problema centrale, infatti, resta ancora quello: l’impoverimento del ceto medio e delle famiglie, che da sempre sono il motore centrale dello sviluppo economico. La ricchezza, ora come 10 anni fa, proviene dalle speculazioni finanziarie, più o meno azzardate, e non dai salari che fanno da carburante all’economia reale, e viceversa. Si arricchisce chi ha portafogli di azioni, e continua a giocare in borsa o in banca. Chi va a lavorare tutti i giorni è uno che non ce l’ha fatta, e non ce la farà mai. Quanto al mercato delle case, una volta il mattone era l’investimento sicuro del ceto medio, ma i subprime hanno insegnato che è meglio starne alla larga.
Non ci si potrebbe aspettare che le cose potessero andare diversamente, se si considera che gli aiuti delle banche centrali sono andati in massima parte alle banche private. Risultato: la situazione è migliorata solo per pochi, mentre una buona metà delle famiglie americane sono esposte nei confronti del mercato azionario persino per le loro pensioni. Aumenta il gap tra ricchi e poveri, e questi ultimi sono sempre di più. Direbbe Marx: io ve lo avevo detto che il capitalismo produce l’accumulazione di quantità sempre maggiori di ricchezza in un numero sempre minore di mani.
È il ceto medio, stupido
Molti i segnali del cattivo funzionamento del sistema: gli studenti si stanno esponendo troppo per i loro percorsi universitari, aumenta il debito accumulato dalle imprese, aumenta anche la sciagurata abitudine degli investitori di prestare a compagnie ad alto rischio. Non solo: i mercati emergenti sono affogati nel debito a buon mercato, e questo si sta avvicinando pericolosamente ai mercati più solidi.
Certo, le banche ora sono più robuste di 10 anni fa, per non parlare del ’29, e il Dow Jones sale e continua a salire. Ma contemporaneamente i salari sono stagnanti, molto più di quanto non ci si dovrebbe attendere in momenti di ripresa dopo un periodo recessivo, e aumenta l’insicurezza.
Trump, la Brexit, i populismi nel Vecchio Continente sono tutte spie di una malattia che potrebbe essere conclamata quando sarà troppo tardi.
Un dazio di troppo
Uno scenario possibile lo ha tracciato l’Economist, ma fa accapponare la pelle. I dazi di Trump (che non sono un’illazione, ma una cosa già concreta) scatenano la reazione di Europa, Cina e Canada. I negoziati si sono dimostrati inutili per risolvere l’impasse. Sulle prime, comunque, gli effetti delle guerre commerciali sembrano essere modesti, e nessuno si preoccupa, ma è solo perché ancora soffia il vento della ripresa dei mesi precedenti. Però è solo questione di mesi: i costi iniziano a crescere, per chi produce e quindi per chi compra. A questo punto la Cina, o chi per essa, vede le proprie imprese soffrire, le proprie esportazioni languire e il proprio mercato finanziario deperire. Che fa? Svaluta la valuta nazionale per dare nuova spinta all’export, ma la Casa Bianca reagisce inasprendo le tariffe. La sovrapproduzione cinese trova la strada di altri mercati, dove diviene impossibile far altro che erigere nuove barriere commerciali. Il circolo diventa, da vizioso, letale.
Si blocca il commercio, si ingolfa la produzione, si perdono milioni e milioni di posti di lavoro. Il Medioevo prossimo venturo, come in un brutto phantasy.
Tutto perché, affacciandosi dalla finestra della sua Torre a Manhattan, una mattina del 15 settembre di 10 anni fa forse proprio Donald Trump osservò un centinaio di giovani rampanti portar via, nell’umiliazione generale, i loro scatoloni. Ma non volle capire cosa stesse succedendo. (agi Graziani)