Dal caffè dove mi sono fermato a parlare con Max, in una traversa poco movimentata e fuori dal frenetico movimento dello shopping natalizio, per arrivare all'entrata dell'albergo dovrò percorrere meno di un chilometro a piedi. Il chilometro dorato: uno spettacolo di negozi e insegne luminose, animate e scintillanti come saette, che mi risulterebbe difficile descrivere in altro modo. Il mio hotel rispecchia un concetto insolito e moderno, molto comune in oriente e quasi sconosciuto dalle nostre parti: si trova all'interno di un centro commerciale, l'Harbour City, una Mecca per quelli che adorano apparire. Se vuoi, tramite uno degli otto ascensori, premi il bottone due della pulsantiera e puoi scendere direttamente nel Mall, per ritrovarti nel mezzo delle vetrine dei negozi: il paradiso a portata di indice. Prima di salire in camera, è proprio ciò che voglio fare.
Accade tutto all'improvviso. Dall'alto del secondo anello, appoggiato alla balaustra che si affaccia su di una piazza circolare al coperto, sono intento a osservare un flash mob di protesta pacifica, dove i manifestanti scandiscono ossessivamente degli slogan a favore della democrazia, quando vengo circondato da un gruppo di ragazzi vestiti di nero, con il volto coperto e i cappucci delle felpe abbassati fino a coprire il viso, spuntati dal nulla.
A un segnale prestabilito, si sono staccati dalla gente e si sono compattati come una falange romana per entrare in azione. Sono gli scarafaggi, i beegles, come vengono chiamati in modo dispregiativo dai loro opponenti filogovernativi. La metamorfosi è appena avvenuta, sotto gli occhi di tutti: la saldatura tra la protesta pacifica e il gruppo dei violenti ha funzionato. Alcuni indossano delle maschere da carnevale: suini, in prevalenza, ma ci sono anche quelli con le tradizionali corna di renna natalizie, altri sfoggiano lunghe orecchie rosa di coniglio, ma sono pochi, e gli immancabili Mephisto. Altri però, la maggioranza di essi, hanno il volto interamente coperto da sciarpe e occhiali: sembrano delle mummie egizie del terzo millennio che si sono risvegliate dai loro sarcofaghi impolverati, per materializzarsi in questo mondo che va alla rovescia. Sono la parte radicale delle proteste, fanno sul serio: entrano in scena, distruggono l'obiettivo e poi spariscono tra la gente, via le sciarpe nere, i cappucci e le maschere.
L’effetto sorpresa è fondamentale. Resto allibito per la coordinazione dei loro movimenti e la rapidità nell'eseguire la loro missione: dietro, è evidente che ci sia una regia, e molta pratica. Altrimenti, tutto ciò non si spiega.
Eseguono delle direttive stabilite a priori, tattiche studiate appositamente per essere uniti come fossero un solo corpo: ma sono almeno una ventina, forse di più. Quando entrano in azione, qui a Hong Kong, i vandalismi sono solo sulle cose, sui beni materiali. I membri del Movimento non usano violenza sulle persone: se ne guardano bene perché sanno che la gente sta dalla loro parte e non vogliono rompere l'idillio. Se nel corso di questi mesi è accaduto qualche fatto violento, è stato solo perché accidentalmente qualcuno ha cercato di ostacolarne la fuga. E loro hanno reagito male.
Il caos è totale. I visitatori che si trovano in questo momento come me nel Mall sono disorientati e si allontanano velocemente in ogni direzione, i bambini aggrappati al braccio, per evitare di trovarsi nel mezzo quando arriverà la polizia che, comunque, puntualmente arriva: e saranno manganelli e pepper spray per tutti.
Mentre alcuni di loro sono impegnati ad affiggere dei volantini alle colonne di marmo lucido che si trovano nel piano, altri fanno andare in mille pezzi le vetrine dei negozi. La prima a saltare con un botto spettacolare è quella di Ferragamo: ma Salvatore se ne farà una ragione. Poi, in rapida successione, quella di Chanel, che gli si trova giusto a fianco. Usano le mazze corte che tenevano nascoste negli zaini: sono armi medioevali, ma funzionano ancora bene.
Si dissolvono in un baleno, così come sono arrivati.
Le forze dell'ordine, allertate dalla sicurezza dell'Harbour City, ne arresteranno un paio all'uscita del Mall: i soli, in questo raid che annuncia la ripresa delle attività di protesta in occasione del Christmas Rush, la corsa agli acquisti di Natale. Vittime sacrificali, come negli agguati dei leoni agli gnu del Serengeti, in Kenia, dove conta solo la salvezza del branco. Alla fine della giornata, però, considerando che la scena si ripete quotidianamente a pelle di leopardo in tutta la città, a decine finiranno in manette: solo nel periodo che va dal 24 al 27 dicembre, saranno più di trecento.
Me ne aveva parlato Max: ecco cos'era la nuova tattica, l'attacco al business che sta scalfendo l'immagine e i conti pubblici di Hong Kong. Gli shopping center, le cattedrali del consumismo: sono diventati questi, ora, dopo la stagione dei cortei da un milione di partecipanti, l'obiettivo del Movimento. La corsa agli acquisti natalizi è un occasione unica, per loro che sono a caccia di visibilità e di attenzione da parte dei media internazionali. L'assurdo di questa lotta asimmetrica è che i dimostranti, nella lotta convulsa per non cadere nelle grinfie del comunismo cinese, si trovino costretti, per forza di cose, a dover distruggere proprio quei simboli che meglio li rappresentano: i gingilli della moda, gli status symbol, i segni visibili del privilegio, i totem dell’apparire per essere. Per loro, al contrario, rappresenta solo una lotta per la libertà.
Il calendario, quest'anno, li aiuta. Il Christmas Rush è una tirata quasi ininterrotta di giorni festivi che si accavallano ai fine settimana, quando le azioni di protesta si intensificano. Per le forze dell’ ordine non vi è pace: i turni di lavoro sono stati incrementati da quando è stato sostituito il Capo della Polizia e al comando ora c'è un tipo piuttosto deciso, un duro, Chris Tang, che promette di rasare le proteste con il pugno inesorabile che richiede da mesi la parte più conservatrice della popolazione di Hong Kong.
La città è blindata. La Polizia è costretta a pattugliare ogni marciapiede che si trovi in prossimità dei Mall in tenuta anti sommossa, alcuni addirittura con le maschere anti gas già poste sul viso, stazionando davanti all'entrata dei negozi e degli obiettivi sensibili. La tattica dei contestatori è semplice e, allo stesso tempo, geniale: le proteste pacifiche si svolgono in contemporanea nei diversi quartieri, all'interno dei centri commerciali, attraverso i flash mob. Potenzialmente, ognuno di questi germogli potrebbe trasformarsi in un episodio di vandalismo con l'arrivo dei gruppi di youngster mascherati, ma nessuno sa, in pratica, quale di essi diventerà un tumulto vero e proprio. Così la polizia è costretta a intervenire in ogni punto dove viene segnalata la presenza di sospetti, ogni qual volta un piccolo gruppo di Beegles provoca la scintilla che, il più delle volte, è solamente un diversivo per far convogliare l'attenzione verso una direzione, mentre il raid si verifica altrove. La mappa degli episodi violenti rende bene l'idea del piano in atto. E devo ammettere che tutto ciò ha un non so che di magico: la forza delle cose che nascono, nel bene e nel male, provoca sempre un certo fascino.
Dal bancone del Lee Lo Mei, un cocktail bar che funge da base operativa per le lunghe serate che fanno da cornice a questo mio viaggio a Hong Kong, non distolgo un attimo lo sguardo dallo schermo del telefono. HKMapLive è l'app che ho scaricato da qualche giorno: l'unico modo per avere sotto controllo, in tempo reale, la situazione della città. Le icone che servono per orientarsi nel vasto programma di flash mob offerto dal Movimento sono forse infantili, ma molto eloquenti: il muso del cagnolino rappresenta la polizia; il dinosauro raptor, le temutissime forze speciali d'intervento, i cui componenti sono vestiti di nero come i loro avversari, i beegles: vanno in giro indistintamente in divisa o in abiti civili e, se finisci tra le loro grinfie, la tua sorte è segnata; poi ci sono le macchinine della polizia, che si muovono in tempo reale e le maschere antigas, quando la polizia utilizza i lacrimogeni. Tutte molto spiritose, senza dubbio. Ma l'app in questione ha un solo problema, e non di poco conto: è solamente in lingua cinese.
A ciò bisogna aggiungere che, per quanto uno possa stare attento al muoversi continuo delle icone per fiondarsi sugli scontri, i flash mob nascono e si esauriscono in una decina di minuti al massimo: loro sono in tanti, tu sei da solo. E, a meno di trovarti lì per caso, non riuscirai ad arrivare sul posto in tempo nemmeno usando un elicottero.
Per finire con gli aspetti negativi, bisogna menzionare i tassisti che, qui a Hong Kong, è difficile parlino una lingua che non sia quella cinese e, se parlano inglese, lo fanno a modo loro: da cani. Nel corso dei giorni, correndo a destra e a manca per la città con loro, mi è capitato ogni tipo di complicazione, sempre dovuta al fatto che, quando menzioni quella dannata parola, press, un virus invisibile che circola nell'aria trasforma le persone con cui ti trovi a parlare. C'è il sabotatore che, non volendo collaborare con un occidentale, ti porta da tutt'altra parte rispetto a quello che indicava l'applicazione. Quello che ti molla al primo incrocio e non vuole neppure essere pagato. Quello che si ostina a voler usare il controllo vocale, chissà poi perché, e non riesce a farsi capire dal suo telefono quando gli indica il nome della strada in inglese, storpiandolo malamente. Una sofferenza, questi tassisti hongkonghesi.
Xi Jinping, nel discorso tenuto venerdì scorso a Macao in occasione del ventesimo anniversario del passaggio di poteri tra Portogallo e Cina, avvenuto nel 1999, ha ribadito la validità del principio “un paese, due sistemi" stigmatizzando la pessima condotta dei giovani hongkonghesi rispetto ai loro vicini di Macao, con una metafora molto emblematica, facendo riferimento alle elargizioni e agli aiuti economici che quest'ultima riceverà per aver tenuto un comportamento fedele alle direttive di Pechino, al contrario di Hong Kong. I bambini buoni, per Natale, ricevono solo doni e caramelle. La Cina, con una produzione annua di oltre 4000 milioni di tonnellate, è il primo produttore di carbone al mondo. Non c'è dubbio, il prossimo 6 gennaio, dove finirà.
foto e testo di sebastiano casella/AGORÀ MAGAZINE