E non tra i politici e i commentatori di professione. Ma erano alcuni cittadini, particolarmente attenti. Avevano sostenuto che sarebbero state abbandonate al loro destino le nazioni in via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia; mentre sarebbero state sostenute – e privilegiate – nel cammino dello sviluppo economico e sociale, traendone maggior vantaggio, quelle dell’Europa orientale e i nuovi Stati usciti dall’ex Unione sovietica; nonché quelli dell’ex Jugoslavia. Tutti fortemente attratti dalla nuova Europa politica.
Sono sicuro che, questo, era stato detto.
Eppure, non si sarebbe mai immaginata l’odierna apocalittica tragedia del trasferimento verso i paesi dell’Unione europea di enormi masse di emigranti e fuorusciti proprio dai paesi dell’Asia e dell’Africa, spinte dalla disperazione e attratte dal miraggio (e dalla speranza, ma per molti anche un’illusione) di una vita dignitosa e rispettosa da offrire ai propri figli, anche a scapito della propria: unico e sommo bene personale.
Non io l’avevo detto. Io che pure mi compiaccio di giocare con le parole, approfondendone il senso talvolta nascosto.
L’affermazione verbale è un dato di fatto, indica un evento; ma, nello stesso tempo, è un avvenimento essa stessa. Un fatto.
L’approccio del linguista a questo tipo di fatti è, generalmente, un’analisi grammaticale e semantica. Egli cerca di scoprirne i valori formali, anch’essi aspetti del reale: concetti e idee, espressi nella struttura linguistica. In questo caso si evidenzia che “era” è un imperfetto (infectum = non-fatto): una condizione di non compiutezza dell’essere. Ciò che i filosofi più antichi chiamavano il divenire. Che “stato”, come participio perfetto del verbo essere indica azione compiuta nel passato il cui effetto dura nel presente. È l’essere. Sempre come hanno intuito i filosofi antichi; ed hanno insegnato. Mentre, che “detto”, participio perfetto del verbo dire, dà la pregnanza semantica all’enunciato: ci dice, in effetti, che l’azione di cui si intende dare comunicazione (e approfondimento) è proprio la parola, il linguaggio. Sostanzialmente, il pensiero.
Non so quanto siano importanti queste considerazioni applicate, nella circostanza, al fenomeno migratorio che sta sconvolgendo il mondo (come l’ha già altre volte sconvolto nelle epoche passate). Certamente, se stimolano il linguista ad una forma di responsabilizzazione, possono richiamare tutti, politici e osservatori, ad una grande responsabilità. Quella di prendere coscienza dei processi del divenire e dell’essere; e di intervenire, poi, di conseguenza: cioè razionalmente.
A questo punto sorge la questione morale. Incentrata sulla responsabilità. Quella delle scelte personali e degli interventi politici che, evitando da una parte l’indifferenza e la presunta estraneità, dall’altra lo scoraggiamento e la dichiarata impotenza (con l’alibi della eccezionalità del fenomeno), diano risposta alle questioni che ci interpelllano.
Non sono, i popoli, cattivi.
Oppure, se lo sono, lo sono nella misura in cui sono cattive le loro classi dirigenti.