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Venerdì, 10 Febbraio 2017 11:03

L'omertà è figlia della menzogna, per la Storia siamo quello che siamo stati

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Quando le pagine della Storia si macchiano di grandi drammi umani, la fiducia nella Ragione, inevitabilmente, si complica. Sicché, chiediamo alla Memoria di interpretare la parte più complicata, nel film dei nostri giorni: essa deve riportarci alla mente quello che, in realtà, ci sarebbe comodo scordare.

Il filosofo Cartesio ha sostenuto che siamo quello che ricordiamo. Ed è la stessa ragione umana a dimostrarci che ignorare i segreti inconfessabili della Storia non solo non ci redime, ma ci assoggetta all'inarrestabile ciclicità del dolore. Anche l'omertà è figlia della menzogna. E l'arte del negazionismo non basta mai a lasciare che un'ideologia, qualunque essa sia, mantenga integra la propria dignità, se mai ne abbia una.

Oggi assistiamo al dramma dei migranti, dell'olocausto che avviene nei nostri mari. Sembra che ci sia un tempo, nella Storia, che non è fisico. È un tempo che rende le tragedie tutte uguali, perché la violazione della sacralità della vita ha sempre lo stesso peso. Il filosofo francese Henri Bergson ha differenziato proprio il tempo della scienza e il tempo della coscienza. Mentre il primo è fatto di istanti equivalenti, quello di ogni individuo ha carattere qualitativo. Il tempo della scienza è astratto e reversibile: un esperimento può essere ripetuto infinite volte.

Ma le emozioni, i sentimenti, sono irripetibili e non sono l'addizione di parti uguali. Gli istanti, nel tempo della coscienza, non sono né distinti né omogenei, ma intrecciati come i fili che compongono un gomitolo di lana. Quindi, al tempo matematico, Bergson oppone il concetto di "durata reale", cioè l'interrotto fluire della coscienza, in cui ogni momento è legato indissolubilmente all'altro. La durata reale, quindi, è anche la memoria, composta dai ricordi di quegli istanti: tutti diversi, ma inscindibilmente legati fra loro. E le pagine fitte della Storia ci raccontano proprio di momenti tutti diversi fra loro, ma persistentemente legati fra loro. C'è, pertanto, un tempo interiore, diverso da quello fisico, che custodisce la nostra essenza.

Raccoglie il pensiero che ci identifica, ed è misura che segna l'ora dei legami, dei sentimenti, della loro intensità. Insomma, la memoria è la determinazione dell'ordine con cui si sommano le nostre individualità. È la mappa fisica della nostra interiorità. Ma la memoria è pure un sentimento. E i sentimenti creano legami, che, per esistere e resistere, non possono accontentarsi d'essere celebrati un giorno solo all'anno. Un giorno nero, segnato sul calendario, è inutile. Perché se la memoria serve ad azzerare l'eventualità della reiterazione, le date del ventisette gennaio o del dieci febbraio hanno senso solo se riportate all'assioma secondo cui l'umanità va celebrata ogni giorno. Per noi che restiamo, l'interrogativo non muta nel tempo: da dove si inizia ad affrontare la fatica di vivere, soprattutto quando non si lascia tenere tra le mani? Quando una data resta un numero sterile, da accatastare nell'insieme indefinito di tutte le cose che, inevitabilmente, lasciamo che refluiscano nel vuoto? Da dove si inizia ad edificare un mondo senza sofferenze?

Come si affronta la colpa la colpa di vivere? Forse, dovremmo ricordare anche che la chiave per sopravvivere al dolore non è l'impacciato tentativo di sorvolarlo, ma è il coraggio di attraversarlo. E, probabilmente, solo allora passeremo dalla dimensione del surrogato della sopravvivenza a quella della redenzione, e ci riconcilieremo con l'autenticità della Vita.

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