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Giovedì, 18 Maggio 2017 07:03

170 anni dopo il Manifesto, in Italia non c'è più lotta di classe

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L'Istat archivia borghesia e proletariato e, dopo 170 anni, va in soffitta il Manifesto del Partito Comunista che è stato emblema, teorico e politico, della lotta di classe.

Era il 1847 quando Karl Marx e Friedrich Engels iniziarono a scrivere il libro commissionato dalla Lega dei Comunisti per spiegare e far conoscere al mondo il loro progetto politico. Il volume vide la luce l'anno successivo: fu pubblicato il 21 febbraio del 1848 diventando ben presto la base politica ed ideologica del movimento comunista mondiale. Insomma l’Italia non è più un paese di operai. Né di borghesi.

"Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo?": questo l'ormai mitico incipit del 'Manifesto' dei due pensatori tedeschi che analizzano la storia come eterna lotta di classe combattuta tra oppressi e oppressori. La società di metà Ottocento viene sostanzialmente divisa in due classi: la borghesia e il proletariato. La prima, in età feudale classe rivoluzionaria in quanto sottomessa alla nobiltà, diventa dominante grazie alla Rivoluzione industriale dell'Ottocento. La seconda, formata da operai e contadini, risulta essere, secondo Marx ed Engels, oppressa ma può diventare essa stessa dominante se prenderà coscienza del suo essere classe.

I due pensatori tedeschi immaginano che la presa del potere politico da parte della classe operaia debba necessariamente avvenire attraverso una vera e propria rivoluzione. Ma non credono che il passaggio da una società borghese a una comunista possa avvenire 'd'emblee'. E arrivano a teorizzare una fase di transizione, durante la quale verranno utilizzati dalle associazioni operaie i mezzi di produzione tipicamente borghesi messi a disposizione dallo Stato, per poi procedere decisamente versa una trasformazione sociale ed economica più radicale.

Successivamente alla pubblicazione del 'Manifesto', Marx definirà meglio questa transizione, definendola 'dittatura del proletariato', una fase propedeutica alla nascita della società propriamente comunista. Una società senza classi, senza sfruttatori e senza sfruttati, in cui i mezzi di produzione sono gestiti direttamente dai lavoratori. Una società senza conflitti in cui non sarà più nemmeno necessaria l'esistenza dello Stato.

Il progetto politico comunista di Marx ed Engels si delinea in 10 punti. Il primo è quello che maggiormente costituì il 'marchio di fabbrica del comunismo mondiale: "Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato". I due pensatori tedeschi teorizzano anche la nazionalizzazione delle fabbriche e degli strumenti di produzione, l'accentramento del credito e dei mezzi di trasporto pubblico nelle mani dello Stato, un'imposta "fortemente progressiva", l'abolizione del diritto di eredità, la confisca dei beni di emigrati e ribelli.

Tutti punti che hanno da sempre fatto rizzare i capelli alle classi dominanti. E ce ne sono altri che appaiono ancora di grande attualità e lungimiranza, come l'educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli e l'abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. Così come appare ancora attuale quello che Marx ed Engels definiscono "uguale obbligo di lavoro per tutti". Ma, al di là delle teorie e delle proposte, quello che più suscitò nei decenni l'entusiasmo delle classi operaie e contadine e, per contraltare, il timore, se non il terrore, delle classi dominanti, furono le parole conclusive del 'Manifesto': i comunisti, si legge nelle ultime significative righe, "confessano apertamente che i loro obiettivi non possono esser raggiunti se non per mezzo della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale. Che le classi dominanti tremino pure di fronte allo scoppio di una rivoluzione comunista".

E ancora: "I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo". Per poi concludere con l'appello universalmente conosciuto e scritto in stampatello: "PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!". (agi)

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