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Sabato, 27 Maggio 2017 00:00

Cosa deve dire davvero il piano della Pa digitale

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Le graduatorie internazionali valgono quello che valgono. Comunque sia il World Economic Forum elabora annualmente un sistema d’indicatori per valutare l’impatto delle politiche pubbliche per l’ICT sulla competitività dei singoli Paesi.

Nel Report 2016 per le politiche a favore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella pubblica amministrazione l’Italia si colloca al 108° posto (su 139 Paesi) per l’importanza data alla visione strategica e al 126° posto per il successo nella loro promozione. Lo stesso indice ci dice anche che siamo al 23° posto per lo sviluppo di servizi on-line dell’amministrazione pubblica. Apparentemente un paradosso. Poca o nessuna visione strategica e capacità di promozione, buoni risultati in termini di digitalizzazione dei servizi.

In questa contraddizione si può leggere, tra le righe, il male antico che impedisce un reale salto di qualità nei processi di trasformazione digitale della burocrazia centrale e locale. Nonostante i quasi 6 miliardi di euro all’anno di spese per l’informatica pubblica che gravano sulle spalle della fiscalità generale. Il male si annida nella continua sovrapposizione d’idee, progetti, iniziative, sistemi informativi, regole tecniche che se da un lato hanno il pregio di favorire l’iniziativa personale di qualche burocrate illuminato dall’altro impediscono qualsiasi progresso di sistema. Con il risultato che abbiamo troppe banche dati (ciascuna ricchissima ma isolata dal mondo), troppi portali e siti web, troppe applicazioni troppi sistemi di autenticazione per l’accesso ai servizi, troppi luoghi e soggetti di coordinamento (che è il modo migliore per non coordinare nulla).

In altre parole all’enfasi di questi ultimi dieci anni sulla digitalizzazione pubblica non ha corrisposto un minimo di riflessione su come radicare realmente nelle amministrazioni pubbliche i processi d’innovazione. E abbiamo dimenticato che senza visione d’insieme e di sistema anche i migliori progetti finiscono per inaridirsi, per perdere stimolo al miglioramento e a innovare loro stessi. E cercando di galleggiare lentamente affondano.

Nei prossimi giorni il presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe firmare il decreto contenente il Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione. Il Piano triennale è, o meglio dovrebbe essere, l’architrave strategico della digitalizzazione dei servizi pubblici ma è anche un programma operativo, un documento che fissa priorità e risorse, spese e risparmi.

Previsto come primo obiettivo dell’agenzia per l’Italia digitale dalllo Statuto firmato a marzo 2013 dall’allora presidente del Consiglio, Monti. Primo punto degli impegni istituzionali dell’Agenzia in base alla convenzione 2014-2016 sottoscritta da Agid a novembre 2014 con il Governo Renzi. Ribadito nelle leggi finanziarie per il 2016 e per il 2017 il Piano triennale per l’ICT nella pubblica amministrazione deve essere redatto dall’Agenzia per l’Italia digitale  e approvato dal presidente del Consiglio dei ministri. In base alle anticipazioni di questi giorni dovremmo essere in dirittura d’arrivo dopo una attesa durata oltre quattro anni. Aspettiamo di leggerlo per valutare, ma le attese sono alte e sembra utile ricordarle.

Il Piano in base alla legge contiene, dovrebbe contenere, per ciascuna amministrazione l'elenco dei beni e servizi informatici e di connettività e dei relativi costi, suddivisi in spese da sostenere per innovazione e spese per la gestione corrente, individuando altresì i beni e servizi la cui acquisizione riveste particolare rilevanza strategica. La legge del dicembre 2015 prevede un obiettivo di risparmio della spesa annuale, da raggiungere alla fine del triennio 2016-2018, pari al 50 per cento della spesa annuale media per la gestione corrente del solo settore informatico, relativa al triennio 2013-2015.

Obiettivo di risparmio che non riguarda le spese per connettività, gli acquisti effettuati da enti pubblici previdenziali, da alcune società pubbliche, per i progetti di digitalizzazione della giustizia o per acquisti compiuti attraverso centrali di committenza o da organi costituzionali. La legge del dicembre 2016 esclude dagli obiettivi di risparmio anche le acquisizioni di particolare rilevanza strategica. I risparmi serviranno prioritariamente per nuovi investimenti in innovazione. Solo capire come si traduce in pratica tutto questo sarà un risultato encomiabile. Ma a pensar male forse non si sbaglia.

Il piano consentirà, dovrebbe consentire, di capire quali siano state le dinamiche di spesa dal 2013 in poi, dove e come si può tagliare e dove invece conviene investire. Ci aspettiamo che emergano progetti che è opportuno cancellare e altri da rilanciare, che siano individuate le modalità di sviluppo del sistema pubblico di connettività (l’infrastruttura di rete della pubblica amministrazione), che ci siano risorse per la didattica digitale nelle scuole o per la semplificazione negli adempimenti per le imprese. Che siano distinte, per ciascuna amministrazione, le spese fatte e quelle da fare, le spese da tagliare del 50% come quelle per i nuovi investimenti. 

L’approvazione del piano triennale da parte del presidente Gentiloni ci consentirà, ci dovrebbe consentire, di uscire dall’incertezza di visione e di percorso. Se, e solo se, sarà redatto in modo conforme alla norma. Se invece, come qualcuno maliziosamente immagina, sarà l’ulteriore elenco di buoni propositi avremo sprecato l’ennesima occasione di porre rimedio al male che si annida nella innovazione della azione amministrativa: la povertà assoluta di visione strategica per l’integrazione e la valorizzazione delle tante iniziative in campo.(agi)

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Read 1170 times Last modified on Venerdì, 26 Maggio 2017 19:15