Non sono i frammenti di una poesia, ma è un ritornello che si ripete ogni qualvolta il male si accanisce contro una comunità costringendola ad abbandonare il proprio territorio. Man mano che la comunità si disperde in tempo e spazio, smette di identificarsi con il territorio diventando qualcos'altro. Il problema è quello di riconoscersi, abituarsi e sentirsi parte di una diaspora.
S'intende per diaspora la "dispersione di un popolo e le sue istituzioni nel mondo". Quando si è diaspora, si è tutto e si è niente; si appartiene alla comunità politica di provenienza, ma anche a quella di accoglienza; si rimpiange il posto abbandonato, ma lo si porta anche dentro e, nonostante ci si consoli a vicenda, si prova un perenne senso di colpa per non aver saputo agire in tempo quando il male si fermentava sotto i nostri occhi. Essere diaspora può essere un vantaggio o uno svantaggio, dipende tutto dal costante rafforzamento dei legami di solidarietà che uniscono le persone coinvolte.
La storia ha visto formare diverse diaspore. Dagli ebrei agli africani, dagli italiani agli armeni, in determinati momenti storici le diaspore hanno avuto un ruolo rilevante nella conservazione di una tradizione, di una cultura, di un'identità e - nel caso degli ebrei e degli italiani - nella ricostruzione dei rispettivi paesi.
Nel nostro caso, resta difficile stabilire un vero ponte tra la diaspora e coloro che si trovano ancora nel territorio. Fino a poco tempo fa, chi andava via era considerato da molti come un qualcuno che si era dato alla fuga e, di conseguenza, era divenato "estraneo" alla comunità di persone che resistevano di fronte alla crisi. Chi partiva veniva considerato come qualcuno che aveva fatto la "scelta più facile", "scappando dalla realtà". Oltre al contatto con i propri amici e parenti, il venezuelano all'estero, reo di non essere presente nell'arena di combattimento, subiva l'ostracismo dei propri connazionali rammaricati nei suoi confronti.
Man mano che le persone emigravano, aumentava la tensione fra le due realtà e nasceva una grande frattura tra quelli che rimanevano e quelli che partivano. L'uno non capiva le motivazioni dell'altro, l'altro non capiva le ragioni dell'uno. Questa grande frattura ha raffreddato il legame tra le due realtà bruciando ogni tentativo di organizzare qualcosa di rilevante affinché i venezuelani, sia all'interno della nazione che all'estero, lavorassero a parità di meriti e condizioni per raggiungere un unico scopo: la liberazione e la successiva ricostruzione del proprio paese.
Oggi le cose sono cambiate e l'unica scelta possibile è quella di andar via. Le ragioni per emigrare sono condivise da quasi tutti e ogni giorno nascono piccole e grandi organizzazioni umanitarie che aiutano i più bisognosi affiancandosi a quelle già esistenti. Ciònonostante, non si riesce a costruire ancora alcun ponte di collaborazione che mantenga uniti i venezuelani. Nonostante sia un momento chiave per la riorganizzazione dell'ormai crescente diaspora, si sta cedendo lo spazio a una fase di disincanto che rende i venezuelani sempre più propensi all'alienazione.
In questa via di mezzo, quando si è fisicamente all'estero e con il cuore sul territorio, si è diaspora, ma per diventare una diaspora che passa alla storia, che conserva la sua cultura e le sue tradizioni mantenendo
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