ANNO XIX Luglio 2025.  Direttore Umberto Calabrese

Mercoledì, 25 Dicembre 2019 04:34

Hong Kong, una bomba a orologeria

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Giungo sul piazzale dove attracca il traghetto per tornare in hotel, dopo la breve traversata che ormai fa parte di un via vai di abitudine, quando noto per strada qualcosa di anomalo: la presenza inquietante di una dozzina di poliziotti in tenuta anti sommossa, che sono schierati tra le persone intente a fare selfie natalizi e a trascorrere il pomeriggio godendosi la giornata di shopping.

 

Alcuni bambini sono spaventati dalle armi e dalle facce ingrugnite dei militari che sembrano dei cani da guardia legati a catene invisibili; altri, invece, più scaltri, paiono incuriositi da quell'equipaggiamento da guerra: lo osservano attenti, come se stessero davanti a una PlayStation, affascinati dalla realtà aumentata del mondo che si trovano a vivere. Una nota che stona, senza dubbio, nella pace metropolitana che regna nel quartiere signorile di Kowloon, affollato di gente, e trafficato perché è l'ora di punta.            

Sto quasi per proseguire quando, da dietro, sento d’improvviso qualcuno imprecare in inglese verso i poliziotti. Mi fermo e lentamente mi sposto tra i presenti per mettermi giusto alle sue spalle, con l'intenzione di capire meglio cosa diavolo stia succedendo. L'uomo in questione avrà una cinquantina d'anni, i tratti orientali e le vene del collo gonfie di rabbia: senza curarsi minimamente delle conseguenze, inveisce in direzione dei poliziotti che lo scrutano in silenzio, indifferenti alle offese che il temerario passante gli sta scagliando contro. “Maledetti criminali! Cosa venite a fare qui, tra la gente, tra i turisti che passeggiano: volete provocarci, vero? Vergognatevi, bastardi! Dovreste finire all'inferno per quello che ci state facendo, razza di disgraziati!”

Fino a quando uno di loro, probabilmente il superiore che comanda il plotone, fa cenno agli altri di mettersi da parte e non gli si piazza difronte con il volto tagliente a due dita dal naso, un fare minaccioso, in attesa che l'altro compia qualche mossa falsa. A quel punto non resisto e cerco a tutti i costi di prenderlo per un braccio per portarlo via. La situazione diventa incandescente, sebbene la gente intorno non sembri affatto disposta a spalleggiarlo questa protesta solitaria. È solo, anzi: siamo soli, ma confido nel fatto che, almeno in teoria, la Polizia in oriente ha ancora un certo rispetto nei confronti degli occidentali.

Niente, non vuole mollare. Sotto gli occhi di tutti, curiosi e poliziotti, gli dico che in questo modo sta rischiando l’arresto, che potrebbe finire nei guai, me compreso che mi sono intromesso nel tentativo di aiutarlo. Alla fine cede, lo prendo sottobraccio e ci dileguiamo confondendoci tra la folla, mentre mi volto in continuazione per capire se qualcuno ci stia per caso seguendo: questo, dopo una giornata di normalità apparente, è il primo contatto reale con ciò che sta accadendo a Hong Kong. Dopo una decina di minuti siamo seduti al tavolo di un bar, una tazza di tè tra le mani, parlando come fossimo due vecchi amici. E la mia adrenalina, intanto, che si normalizza.

Max (il nome è di fantasia [ndr]) ora si è calmato, come quando un fiume in piena che ha sfogato la sua forza torna negli argini consueti del suo perenne scorrere. Mi racconta di essere un architetto, è nato qui a Hong Kong e ha il doppio passaporto dopo aver vissuto per quasi venti anni in Canada, dove si trova la sua famiglia, sua moglie e i suoi due figli. Si capisce subito che è una persona ben educata, in grado di parlare un ottimo inglese, come quasi tutti gli hongkonghesi, d'altronde, con un accento che tradisce appena le origini cinesi. È anche un uomo di bell’aspetto, quasi una rarità da queste parti, dove la bellezza sembra essere una prerogativa esclusivamente femminile.

“Perché lo hai fatto?” gli domando. Comincia così un lungo monologo, che sarà interrotto dalle mie domande solo in poche occasioni. Uno sfogo che trovo pienamente giustificato, dopo tanto nervosismo accumulato sin dal momento dello scatto d'ira mal represso.

“Hai visto com'erano vestiti, quei cani? I taser, i mitra, gli spray urticanti alla cintura, i caschi con le visiere abbassate: le hai viste queste cose? Ti pare giusto, proprio in questi giorni di festa, su una strada come Canton Road, piena di negozi e boutique d'alta moda, tra gente pacifica, famiglie, turisti in cerca di svago, presentarsi in mimetica come se stessero in guerra? Ti pare un attitudine da paese civile, questa?” Annuisco, senza interrompere il flusso di questo suo discorso, un regalo inaspettato per il lavoro che sto facendo. Dà un sorso di tè, poi riprende.

“Non ci sono bestie da ammaestrare, qui a Hong Kong. Siamo sempre stati liberi, ci sentiamo liberi. Se stiamo facendo quello che stiamo facendo, è perché vogliamo continuare a esserlo. Il Movimento ha l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Non sono soltanto i giovani, a protestare: ci sono i padri di famiglia, persino gli anziani hanno preso una posizione a nostro favore. Spero soltanto che voi giornalisti, in Europa, queste cose le scriviate. Me lo auguro”.

“Quello che vogliono i nostri giovani, i beetles, (scarafaggi, definiti così dagli opponenti perché vestono completamente di nero durante gli scontri [ndr]) come li chiamano loro, è soltanto un futuro. Tra meno di trent'anni, quando la Basic Law (la Legge Fondamentale che garantisce a Hong Kong l’integrità del suo status preferenziale riguardo ai diritti civili [ndr]) cesserà di essere in vigore, Pechino riprenderà il potere e noi verremo spazzati via come polvere dal Comunismo. Si riprenderanno tutto: le nostre case, il frutto del nostro lavoro, le nostre vite, il nostro modo di essere: tutto. Ma noi non siamo disposti a permetterglielo. Come pensi che questi giovani possano avere un'istruzione, prepararsi professionalmente, trovare un impiego, mettere su una famiglia e avere dei figli, già sapendo che un giorno non lontano tutto quello che hanno costruito gli verrà portato via? Saranno costretti a espatriare, come già una volta abbiamo fatto noi che siamo più anziani, come ho fatto io nel ’97, quando gli Inglesi sono andati via. Che vite potranno mai avere i nostri figli se non affrontiamo fin da ora la questione delle garanzie civili, del diritto di proprietà, che in Cina non è neppure permesso nominare perché vieni considerato un sovversivo, dell'inviolabilità territoriale e dell'indipendenza di Hong Kong? Chi potrà mai tutelarci, se non siamo noi a farlo, dalla giustizia sommaria dei tribunali cinesi?”

È questo, allora, uno dei punti centrali del dilemma: la paura, da parte dei giovani hongkonghesi, i cittadini di domani, di non avere un futuro certo: per questo scendono in piazza.

“Mi stai parlando al presente, Max: eppure sono qui da tre giorni, ormai, e sembra che tutto si sia fermato. Hong Kong non fa più notizia. In aeroporto mi aspettavo di trovare il caos, invece era tutto tranquillo. Sta ritornando l'ordine, dopo sei mesi di lotta, o mi sbaglio?” gli chiedo.

Max ha come un sussulto, si irrigidisce di colpo e il suo viso si fa serio. “Questo è quello che vorrebbero far credere al mondo Xi Jinping e l'elite governativa di Pechino quando continuano a dire nei discorsi ufficiali che il principio “one country, two systems” è ancora perfettamente funzionante e che la situazione a Hong Kong si è normalizzata. Ma sa di mentire spudoratamente. La nostra strategia, da quando abbiamo iniziato la protesta a giugno, non è affatto cambiata: abbiamo solo messo in secondo piano le manifestazioni moltitudinarie del primo periodo, quando siamo usciti allo scoperto, e che sono servite allo scopo di far sapere al mondo per cosa stavamo lottando. Ora abbiamo solamente raffinato la tattica e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Numeri, sto parlando di questo".

“Cioè?”

“ Stiamo colpendo quello che è, allo stesso tempo, il punto di forza e l'anello debole del sistema: il denaro, il business. I mercati azionari sono giocattoli estremamente delicati: gli investitori internazionali vogliono trasparenza, regole certe, ambienti sociali stabili: non tollerano le insicurezze e gli attriti dei poteri istituzionali con la società civile, altrimenti fuggono inesorabilmente verso altri mercati, come Singapore e Tokio, tanto per citarne qualcuno.

Da giugno a settembre, nel penultimo trimestre, il PIL di Hong Kong è calato di quasi tre punti: non succedeva da dieci anni, dall'ultima crisi globale. Anche il turismo ha risentito dell'effetto negativo causato dalla protesta che stiamo mettendo in atto: gli hotel hanno un'occupazione che, rispetto all'anno scorso, è calata del trenta per cento. Abbiamo costretto Carrie Lam, il Capo Esecutivo, ad annullare i festeggiamenti di fine anno che si svolgono su Victoria Bay con i fuochi pirotecnici più belli al mondo, una celebrazione alla quale siamo tutti legati, qui, e di cui siamo stati sempre orgogliosi. Gli hotel hanno dovuto rivedere al ribasso le tariffe, per evitare di rimanere completamente vuoti e, nonostante queste misure, il calo di presenze dell'incoming turistico è stato notevole, un quaranta per cento in meno rispetto ai dati dello scorso anno. Hai fatto un giro in tutta la città? Hai notato quanti esercizi commerciali sono stati costretti a chiudere? Stiamo parlando di non meno di cinquemila attività su un totale di sessantamila aziende, tra ristoranti, bar e negozi. Tutto questo, nel giro di qualche mese, porterà a un punto di non ritorno. È proprio ciò che vogliamo: la resa dei conti, lo showdown”.

“E gli Stati Uniti? C'entrano qualcosa con le vostre proteste? Vi sostengono apertamente, la cosa fa indignare Pechino eppure continuano a ingerire in quello che non dovrebbe essere affare loro. Vi aiutano anche finanziariamente, ricevete dei fondi dal governo americano?” faccio io.

Max accenna un sorriso colmo d'orgoglio, come se stesse già aspettando la mia domanda. La sua risposta, devo ammetterlo, mi sorprende un poco.

“Gli Americani ci appoggiano, condividono le idee del Movimento: è vero. Il signor Trump avrà i suoi buoni motivi per farlo, ma noi non siamo in cerca di sponsor, non ne abbiamo bisogno. Il crowdfunding che abbiamo messo in funzione opera mediante la raccolta libera di denaro che siamo noi stessi a mettere a disposizione per il Movimento.

Sono offerte volontarie che utilizziamo per le spese legali dei nostri avvocati nei processi penali in cui sono coinvolti i nostri militanti in arresto, per l'assistenza alle famiglie in difficoltà economiche per via del mancato reddito percepito dalle persone che si trovano in carcere e per le cure mediche dei feriti, che sono molti, più di quelli che tu possa immaginare: abbiamo registrato più di tremila casi di ricoveri dovuti alle conseguenze degli scontri con la Polizia, fino a ora. I numeri crescono ogni settimana, si può dire: sono il prezzo che paghiamo per tenere alta la tensione. Ma questo non ci spaventa affatto, al contrario: ci rende più consapevoli della nostra forza.

In questi sei mesi di lotta siamo stati in grado di raccogliere quasi dieci milioni di dollari, il denaro non manca: siamo un paese con un reddito pro capite altissimo, ben oltre quello di qualsiasi altra nazione europea. No, come vedi, non ci serve il denaro. Né quello dell'America, né quello di ogni altra parte del mondo. Vogliamo essere liberi, solo questo: essere liberi. E ci riusciremo, puoi starne certo".

Prima di concludere il nostro piacevole colloquio, mi aveva detto una cosa, abbassando il tono della voce. “Voglio farti un regalo: ti do un'informazione in anteprima. Il Movimento sta organizzando qualcosa di grande per i prossimi giorni. Saremo in tanti, stavolta si torna all'antico: faremo una marcia di cui parleranno tutti i giornali, vedrai. Sappiamo che la Polizia farà di tutto per reprimerla, ci saranno degli scontri, come al solito, ma non possiamo fermarci: dobbiamo andare avanti nella lotta”. “Quando accadrà esattamente, Max?” gli chiedo. “Oh, è una notte speciale: il 31 di dicembre". “Posso scriverlo, questo?” “Sì, siamo già infiltrati: già lo sanno" mi risponde secco.

Quando ci alziamo dal tavolo, si è fatta già sera. Da lontano, giunge il suono di una sirena che starà correndo Dio solo sa dove, poi di un'altra. Scambiamo i numeri di telefono, ci sentiremo nei prossimi giorni tramite whatsapp. Contrariamente a quelle che sono le regole della tradizione orientale, dove il contatto fisico tra due persone, anche se amiche, è praticamente nullo, ci stringiamo in un lungo abbraccio quasi commovente.

Prima del saluto definitivo, però, gli riesco a strappare una promessa: che abbia cura di sé e che non ripeta più ciò che ha fatto prima, nel piazzale, davanti a quei poliziotti. Lui mi fa cenno di sì con il capo e mi regala un ultimo, dolce sorriso. Ho già capito che non la rispetterà.

Reportage da Hong Kong foto e testo di Sebastiano Casella per Agoramagazine

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