“L’intero ciclo di produzione dalla materia prima al prodotto finito è suddiviso in un certo numero di fasi distinte e ciascun prodotto finito deve passare attraverso non poche di quelle fasi.” Lo stesso ragionamento vale per l’agricoltura attraverso la formazione di cooperative, di consorzi e d’imprese per la trasformazione industriale ed energetica delle risorse della terra. Ciò permetterebbe, tra l’altro, di ridurre la filiera distributiva per favorire, in questo modo, un maggior guadagno del produttore e una minore spesa del consumatore. Si afferma, non certo impropriamente, che creare valore significa determinare benessere. D’altra parte un’impresa per dimensionare la sua effettiva performance economica deve misurarsi con la sua capacità di creare valore. Questo, pur se è innegabile come risultato finale, dà per scontato che l’azienda abbia in precedenza garantito lungo la catena produttiva e di sbocco un valore aggiunto per tutti gli attori da lei coinvolti: fornitori, clienti, dipendenti ecc. E’ un concetto tipico assimilato dall’azionista che stima il reddito ottenuto dal suo investimento in ragione della ricchezza che è stata creata per lui.
Una ricchezza acquisita se il valore del capitale non è stato mortificato, in altre parole la perdita non ha compromesso la sua tenuta complessiva. Non si tratta di un concetto nuovo. Già anni fa la performance economica aziendale, il cosiddetto residual income, calcolava il valore economico aggiunto (Vea) con la differenza tra il reddito di esercizio (Re) e il costo del capitale investito (Coc).
Questo rapporto costo/beneficio è oggi molto avvertito giacché è aumentata la fascia dell’azionariato diffuso accrescendo, di pari passo, l’attesa d’investimenti capaci di recuperare i margini di profitto del passato. In ciò s’innesta sempre di più l’evidente ragione che il valore del capitale è funzione del futuro: un capitale vale, infatti, in misura pari al valore attuale dei redditi che promette di governare in futuro. D’altra parte imparare a gestire il proprio capitale, a ripartirne i rischi, è spesso impresa non facile. Penso alle aziende quotate in borsa e a capitale diffuso (public companies), per cui la quotazione azionaria può essere intesa come misura sufficientemente rappresentativa del valore come non potrebbe essere per imprese che, pur quotate in borsa, hanno una proprietà concentrata e il valore di Borsa esprime al meglio il valore attribuibile a quote marginali di proprietà. Come si può agevolmente notare tale impatto non è agevole se il risparmiatore vuole scendere in campo e misurarsi con l’investimento azionario con l’intento di recuperare il calo dei tassi dei titoli pubblici. Questa è pur sempre da considerarsi una possibilità che provocherà grossi spostamenti di capitali dal pubblico al privato, man mano che si prenderà coscienza di tale realtà. Nello stesso tempo imporrà un miglioramento e un rapporto di fiducia più marcato tra l’investitore-risparmiatore e il suo intermediario. (Riccardo Alfonso)