ANNO XVIII Aprile 2024.  Direttore Umberto Calabrese

Giovedì, 20 Agosto 2015 11:17

La crisi democratica di identità di Zygmunt Bauman

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Nello stesso libro in cui Ezio Mauro dichiara la sua crisi democratica di identità, Zygmunt Bauman, l’intervistato, risponde mostrando il senso profondo della sua crisi democratica di identità: la vulnerabilità.

Paradossalmente la crisi di identità di Bauman consiste nel restare senza identità Vale la pena riportarla anche perché nei suoi testi viene spesso ripetuta e dunque si tratta di una ragione profondamente radicata:

Lo scopo di avere un governo è di essere sicuri. Come osservava Sigmund Freud, pur di ottenere una maggiore sicurezza siamo disposti a sacrificare e ad essere privati di una buona dose di un altro valore che ci è caro, quello della libertà. Poiché questi due valori non sono del tutto conciliabili nella pratica (per ogni quota aggiuntiva di sicurezza bisogna rinunciare a una parte di libertà, e viceversa!), la vita umana è condannata a rimanere in un compromesso, pieno di risentimento ma inevitabile, fra una sicurezza sempre incompleta e una libertà sempre incompleta. Ed è nella natura di questo compromesso che non possa essere del tutto soddisfacente: ogni assetto specifico è frutto di una negazione o una imposizione di un diverso equilibrio fra i due valori con i rispettivi benefici e perdite. Ci muoviamo a pendolo fra l’affannosa ricerca di maggiore libertà e l’affannosa ricerca di maggiore sicurezza. Ma non possiamo averle entrambe in quantità sufficiente.”[1]

Mi sono dilungato sulla citazione perché la stronzata è davvero notevole e l’ho sentita ripetere, come una noiosa litania, nella infinta serie di convegni, conferenze, seminari, dibattiti e monologhi che ho frequentato in questi lunghi anni di professione.

          Decostruiamo, alla Derrida, questa stronzata.

          Che cosa significa dire che a maggiore libertà non corrisponde una maggiore sicurezza e viceversa?

          Significa forse che laddove non c’è stata libertà, cioè nei regimi tirannici o totalitari, c’era una maggiore sicurezza?

          Non mi pare.

          Anzi, mi pare totalmente falso sul piano storico.

          Una delle connotazioni dei regimi tirannici o totalitari, comunque non democratici, è la eccessiva vulnerabilità del cittadino, il sopruso all’individuo, addirittura, la totale discrezionalità del potere e il totale asservimento dell’umano (da cui appunto la denominazione di totalitarismo). 

          Dunque la frasetta “Poiché questi due valori non sono del tutto conciliabili nella pratica” è totalmente destituita di fondamento proprio nella pratica, proprio sul piano storico. E se è vero piuttosto il fatto storico che laddove non c’era la libertà non c’era nemmeno la sicurezza; o viceversa che lo spazio politico che garantisce il massimo di sicurezza possibile è lo stesso identico spazio politico che garantisce la maggiore libertà politica: allora anche l’inciso “(per ogni quota aggiuntiva di sicurezza bisogna rinunciare a una parte di libertà, e viceversa!)”, è una inutile stupidaggine. Lo dicono ancora anche i vecchi nostalgici del fascismo che quando c’era Lui si poteva dormire sonni tranquilli e lasciare la chiave serenamente nella serratura della porta o addirittura la porta aperta. A meno che tu non fossi un ebreo, o un oppositore, o semplicemente un inviso al potere, o un rivale del potentato cittadino, o una donna procace, come sanno benissimo i milioni di familiari dei desaparecidos che hanno visto scomparire nel nulla mogli, amici, mariti, fratelli, parenti, semplici conoscenti senza sapere mai come e nemmeno perché. O come sanno benissimo coloro che vivono nelle teocrazie fondamentaliste religiose, che hanno ceduto tutta la loro libertà per non ottenere nemmeno un po’ di sicurezza in più. Allora l’affermazione che “pur di ottenere una maggiore sicurezza siamo disposti a sacrificare e ad essere privati di una buona dose di un altro valore che ci è caro, quello della libertà”, sia che l’abbia detta Sigmund Freud, sia che l’abbia detta Zygmunt Bauman, sempre una stronzata è.

          È vero perfettamente il contrario: noi vogliamo una maggiore sicurezza per avere la possibilità di vivere in una maggiore libertà. Se i nostri figli vanno a scuola accompagnati e non da soli è perché loro e i loro genitori hanno paura. Una maggiore insicurezza limita la libertà di agire dei bambini. Se una ragazza non frequenta luoghi oscuri di sera, è perché teme per la sua incolumità. Una maggiore insicurezza ha ridotto la libertà di scelta di quella giovane donna. Sempre quando c’è una maggiore insicurezza c’è una riduzione decisiva dei margini di libertà individuale. Questo è il senso profondo della filosofia di Hobbes, secondo cui in una condizione di totale insicurezza (homo homini lupus) c’è anche una totale illibertà, visto che il più forte riduce ad una condizione di schiavitù i tanti deboli. La situazione indicata dal duo Freud/Bauman, massima libertà minima sicurezza e viceversa, non vale nemmeno per il mondo animale e, in ogni mondo, non vale nemmeno per il più forte, che è tale proprio perché ha contemporaneamente il massimo di sicurezza possibile e il massimo di libertà. Il compromesso giusnaturalista che determina l’avvento dello Stato nella veste del Leviatano, serve proprio a garantire a tutti (ai più deboli in primis) la giusta coniugazione del massimo di libertà e il massimo di sicurezza possibile. Per questo motivo intanto non credo proprio che la vita umana sia “condannata a rimanere in un compromesso, pieno di risentimento ma inevitabile, fra una sicurezza sempre incompleta e una libertà sempre incompleta.

          Sicurezza e libertà sempre incomplete rispetto a chi?

          I crimini sono decrescenti nelle società moderne.

          Allora?

          Significa che la nostra sicurezza è sempre più completa.

          La libertà di autorealizzazione, come ha definitivamente spiegato Maslow, è più alta nelle società più ricche e sviluppate.

          E allora?

          Significa che la mia libertà è sempre più completa.

          La stupidità più radicale poi è quella di affermare che “Ci muoviamo a pendolo fra l’affannosa ricerca di maggiore libertà e l’affannosa ricerca di maggiore sicurezza. Ma non possiamo averle entrambe in quantità sufficiente.”, perché per sua natura questo compromesso non può “essere del tutto soddisfacente: ogni assetto specifico è frutto di una negazione o una imposizione di un diverso equilibrio fra i due valori con i rispettivi benefici e perdite.

          Che cosa significa?

          Che la mia libertà di uccidere un uomo è limitata dalla esigenza di garantire la sua sicurezza? Non potrebbe anche essere che la mia libertà di uccidere un uomo è limitata dalla sua libertà di non essere ucciso e che questo limite porti entrambi ad un più alto valore di libertà, avendo al tempo stesso innalzato il valore della sicurezza affinché nessuno dei due muoia?

         Facciamo un esempio: se contabilizzo pari a 100 la mia libertà di uccidere un uomo e pari a 100 la sua libertà di uccidere me, quando uno dei due sarà morto il valore complessivo della libertà del nostro rapporto sarà sempre soltanto pari a  100; ma se ci diamo entrambi il divieto di non ucciderci e questo divieto ci fa perdere, diciamo, 20 punti ciascuno il valore complessivo della libertà del nostro rapporto è pari a 160; è cresciuta per entrambi essendo contemporaneamente cresciuta la sicurezza reciproca visto che nessuno dei due è morto. Si dirà che ciascuno singolarmente ha perso una quota di libertà (20) per garantirsi un margine di sicurezza. Appunto, sul piano individuale, ma non sul piano sociale, dove invece la libertà e la sicurezza sono entrambe cresciute. Dunque questa brutta considerazione può valere nella psicologia individuale, ma non nella sociologia collettiva; può valere per Freud (al limite), ma non certamente per Bauman.

          Infine, che libertà è quella di uccidere un altro?

          Mi pare piuttosto una sopraffazione. 

Ogni volta che affronto questo problema, che si sente noiosamente in giro, amo citare un bellissima poesia di Emily Elizabeth Dickinson: IO VIVO NELLA POSSIBILITA’

Io vivo nella possibilità,
una casa più bella della prosa,
di finestre più adorna,

Ha stanze simili a cedri,
impenetrabili allo sguardo,
e per tetto la volta
perenne del cielo.

L’allietano visite dolcissime.
E la mia vita è questa:
allargare le mie piccole mani
per accogliervi il Paradiso
.

            La libertà dell’uomo consiste nell’abitare dentro le possibilità della vita.

Quando un uomo nasce entra nella “ casa più bella della prosa” della sua vita, le sue possibilità sono infinite di finestre più adorna,”,  le stanze sono ambiziose speranze “simili a cedri”,  che lo sguardo non trattiene impenetrabili allo sguardo,”.

Poi cammina, libero “per tetto la volta / perenne del cielo” e agisce, sceglie e sbaglia.

Conosce, “L’allietano visite dolcissime”.

Le sue possibilità si riducono, quella stanza si restringe, le porte si chiudono, le speranze si diradano. Alla fine resta soltanto la libertà di concludere allargare le mie piccole mani / per accogliervi il Paradiso”.

In un’epoca di grandi commistioni io continuo a sostenere il valore inscindibile tra sviluppo, sicurezza e libertà individuali. Si tratta di tre vettori che si incrociano ogni volta in diverso punto di equilibrio. Quando l’uomo comincia a camminare, rischia continuamente di debordare, verso l’asse della sicurezza eccessiva che diventa controllo, o verso l’asse dello sviluppo irrefrenabile che diventa crescita, o infine verso l’asse della sregolata libertà che diventa sopraffazione. Per poter continuare a vivere nella possibilità e per lasciare integra questa possibilità alle generazioni successive, dobbiamo mantenere l’equilibrio dinamico tra sicurezza, sviluppo e libertà, perché sono tutti e tre perfettamente conciliabili. 

            In questi anni ho studiato i problemi della violenza politica e del terrorismo.

Credo che negli ultimi anni, oltre ai rischi, abbiamo vissuto qualche possibilità in più.

Abbiamo vissuto nell’occasione di confronto, di impegno, di conoscenza e scambio, tra persone, idee, associazioni e istituzioni. Viviamo nella possibilità di capire la sicurezza e la paura mediatica in una vita imitata. Viviamo nella possibilità di cogliere il valore culturale e comunicativo  dello sviluppo. Espandendo le nostre possibilità di confronto viviamo la libertà di superare i vincoli rigidi della informazione codificata. Abbiamo la possibilità di vivere in un equilibrio generale cercando di capire dove si colloca oggi quella intersezione tra le istanze politiche primarie di ogni aggregazione umana.

Colgo la possibilità che mi offre la società della comunicazione di affermare l’intelligenza dei nuovi compiti, delle priorità, delle metodologie che la comunità politica deve sviluppare per ripristinare l’equilibrio nel complesso sistema di relazioni internazionali.

Contro tutte queste possibilità, invece, noi percepiamo il propagarsi della violenza politica nel mondo, padrona di tecnologie più avanzate e  metodologie sofisticate, come il prodotto di un generale squilibrio tra le parti. Quanta sicurezza c’è nella protezione dei sistemi connettivi? Quanto sviluppo c’è nella transizione dei sistemi socio-tecnici in net society? Quanta libertà, individuale e collettiva, assicurano a tutti noi oggi le azioni incontrollate dell’ intelligence?

La questione è sfuggente.

L’equilibrio è indefinibile.

Ma la paura è rimasta, sempre più fisica e palpabile, veicolata dai mass media e prodotta da moltiplicatori comunicativi, in veste di criminali o di terroristi.

È solo paura individuale però.

La democrazia ci ha tutelato e ci tutela ancora da tutte queste minacce. Niklas Luhmann diceva che la minaccia che piova diventa un rischio per noi se non ci portiamo un ombrello. La democrazia è ancora il nostro ombrello che ci permette di coniugare insieme libertà, sicurezza e sviluppo, ciascuno espandendo la quantità e la qualità dell’altro. Forse il compito che dobbiamo assegnare, fin dall’inizio, alle Istituzioni consiste proprio nell’individuare questo punto di equilibrio tra tendenze travolgenti che, senza la politica, rischiano di andarsene ciascuna per proprio conto. 

Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”.

Questo è il manifesto del liberalismo, redatto come iscrizione sepolcrale di Immanuel Kant.

Tra il cielo stellato e l’imperativo morale, tra la infinita possibilità di agire e la mia volontà c’è l’etica politica delle istituzioni e dei cittadini comuni. L’equilibrio tra le parti, il generale equilibrio del sistema, esiste soltanto se resiste un’etica della politica in grado di arginare chi vuole eccedere. Si deve arginare chi, in nome della sicurezza vuole imporci ogni controllo; bisogna frenare coloro che credono di aver la libertà di fare quello che vogliono; bisogna limitare chi vuole crescere a dispregio di ogni altra forma di integrazione con l’habitat.

Se c’è nella società civile una radicata etica politica, il rischio della scomposizione degli elementi sociali, il pericolo di imboccare una strada a dispregio di un’altra non c’è.

Con un’etica della politica profondamente connaturata alle radici della società noi possiamo procedere senza debordare dal punto di intersezione tra sicurezza, sviluppo e libertà; noi possiamo evolvere senza perdere l’equilibrio.

Naturalmente l’etica politica non può essere normata, cioè regolamentata per legge. Se lo fosse non sarebbe più etica e rischierebbe di istaurare un regime fideistico di nuovo tipo. Gli Stati etici sono una impressionante minaccia alla libertà e alla democrazia, come la storia ha abbondantemente dimostrato. Ma con i mezzi di comunicazione di massa in azione permanente, l’etica politica ha una valenza maggiore nel controllo e nella legittimazione dei governanti.

Le emozioni collettive della società multimediale travolgono i poteri, come diceva Margaret Mead: “vi sono canzoni che hanno distrutto re e reami”.

In Italia l’etica della politica ha subito forti lesioni.

Spesso le minacce alla libertà non vengono nemmeno percepite.

Estendere la comunicazione è un modo per ricucire le lacerazioni dell’etica politica e i rischi invasivi delle istituzioni sui margini di libertà dei cittadini e per permettere alla democrazia di trovare da sola il miglior punto di equilibrio per la nostra qualità della vita.

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